venerdì 25 dicembre 2015

Centrali galleggianti e una ruota sull'acqua. La Martesana

di Giulia Cocchella


Il naviglio della Martesana lo scopro per caso, facendo ricerche sul sito di Bicitalia.
Quando il traffico viaggiava sull'acqua, le merci dirette a Milano transitavano da qui e raggiungevano la città per questa via, dondolando sulla sua superficie fino a destinazione. 
Censita tra le piste ciclabili di qualità, quella costruita accanto al naviglio della Martesana promette vegetazione lussureggiante e architetture che si specchiano nell'acqua, tranquillità - almeno oggi, il giorno di Natale - e fondo in perfette condizioni.


Scesi con il treno a Milano Centrale, raggiungiamo la ciclabile di Via M. Gioia che ci porta subito fuori città: direzione Adda!
C'è una strana atmosfera sospesa da giorno di festa, amplificata da una leggera nebbia e dai riflessi densi delle case sul naviglio. Qualcuno corre, qualcuno marcia a passo veloce con le cuffie nelle orecchie, ma tra poco spariranno tutti nelle proprie case e rimarremo solo noi tre, scampati per motivi diversi al pranzo natalizio. Penso che è un po' come poter vedere che cosa accade in una stanza quando la chiudi: solo che la stanza è spazio aperto e il mondo, che non sa di feste e tradizioni, rimane uguale a sé stesso, fedele al suo rito laico di vento che muove, di foglia che cade...
Solo un po' più sgombro di chiacchiere.



La pista ciclabile passa per Vimodrone, Cernusco sul Naviglio, Gorgonzola, e Cassano d'Adda.
A Groppello, una frazione di Cassano, il movimento lento e perpetuo di un' antica noria cattura lo sguardo e rallenta il passo. Si tratta di una ruota ad acqua, simile a quella di un mulino, ma con una funzione completamente diversa: sfruttando la corrente attraverso le grandi pale di legno, sollevava l'acqua del naviglio grazie ad alcuni secchi collocati lungo il suo perimetro e la convogliava in un sistema di irrigazione. 



Ci fermiamo a guardarla per un po', poi una piccola piazza lì vicino ci fornisce tre sedie per il nostro pranzo e una fontana dove mettere in fresco il prosecco. Mangiamo i nostri panini, tagliamo il pandoro che esce intatto dalla mia sacca, brindiamo e riempiamo le borracce con quel che resta del vino. 
Da qui inizia la parte più bella del percorso. La strada per Trezzo infatti si snoda tra il naviglio che scorre alla nostra sinistra e l'Adda che improvvisamente appare tra gli alberi a destra. Il paesaggio si fa progressivamente meno urbano e ci addentriamo in un mondo allo specchio, dove ogni elemento moltiplica sé stesso e si perde nella sua contemplazione. Alberi doppi, case al rovescio, gabbiani appaiati al loro riflesso volante.




Pedaliamo sotto le costole di ferro di un ponte gigantesco, ribadite in acqua così perfettamente che sembra di passare attraverso un cannocchiale.


Varcata questa strana soglia, reale e riflessa, si apre un panorama che lascia senza fiato.
Nella luce bianca, riverberata in alto dalla foschia e in basso dall'acqua, si staglia il profilo di quella che sembra una cattedrale. Tutto attorno, posati sulla diga e sulle chiatte, i gabbiani la sorvegliano.






Progettata in stile eclettico dall'architetto Gaetano Moretti, su commissione di quel Cristoforo Benigno Crespi che fu celebre industriale e fondatore del villaggio operaio di Crespi d'Adda, la Centrale idroelettrica Taccani doveva fornire energia alla filanda del suo committente. Era il 1906. Il Crespi volle che l'impianto architettonico fosse ben inserito nel contesto paesaggistico e che non creasse contrasti inopportuni con le vestigia del castello visconteo poco distante. La scelta del materiale di costruzione ricadde su una puddinga locale, detta "ceppo dell'Adda".
A distanza di più di un secolo - la centrale ancora attiva - questo luogo conserva un magnetismo particolare (è difficile proseguire, lasciarselo alle spalle) e un fascino complesso da spiegare, tutto contenuto in quell'equilibrio, cercato e voluto, tra gli elementi architettonici e naturali, tra le istanze imposte da un luogo di lavoro e le esigenze di decoro dettate dal buon gusto.




Proseguiamo, gettando un ultimo sguardo alla fabbrica e al suo doppio, scortati da gabbiani, cigni e gallinelle d'acqua. Gli alberi liberano nell'aria i loro semi volanti.




L'acqua è sempre più presente sul nostro cammino, si allarga a destra, scende a rivoli dai muri, cade in ripidi scivoli vicino alle centrali, numerose lungo la strada. 
Forse è un presagio, anche nei colori assunti via via, del lago di Como, ormai non molto distante.
La tentazione di accendere le luci e continuare a pedalare è forte, ma il sole cala. Arrivati a Paderno, prendiamo il treno che ci riporta a casa. 








sabato 24 ottobre 2015

Mongolfiere di carta e porte dipinte. In bicicletta nell'imperiese.

di Giulia Cocchella

Sfruttano i venti diversi che si trovano a seconda dell'altitudine, racconta Domenico. E le gare sono lentissime, da morire di noia. Le mongolfiere si avvicinano al bersaglio di fine gara, lanciano dall'alto un sacchetto di terra, poi proseguono il loro volo, atterrando dove capita.
Domenico lo incontriamo per caso, sul treno diretto a Imperia. Non appena lo informiamo della nostra destinazione - Bellissimi, il paese dei balui, le mongolfiere di carta - inizia a raccontarci quello che sa. E Domenico è uno di quegli uomini che sa parecchio di tutto, che si interessa di ogni cosa e di niente in particolare, come dice lui stesso, ma io credo che non sia del tutto vero. Di sicuro ha volato in mongolfiera, e il suo racconto incanta. Ci sono mongolfiere con il classico cestello di vimini, ci racconta, e altre monoposto, con una specie di sedia per viaggiatori solitari. La fase del gonfiaggio è la più delicata: due uomini tengono il pallone in due punti opposti della circonferenza, poi si accende il fuoco. Bisogna stare molto attenti a non arrostirla, dice, quindi scende dal treno qualche fermata prima della nostra.
Dalla stazione di Imperia Porto Maurizio, le strade possibili per raggiungere Dolcedo sono due, più o meno equivalenti sia per chilometri che per panorami. Scegliamo la SP41, che in meno di otto chilometri, con leggera salita ci porta in paese.





Dolcedo sembra reggersi tutta attorno alla gobba del suo ponte, con le case e il campanile di S.Tommaso che si piegano verso il torrente come giunchi di fiume. Gli archi che reggono le case sono sovrapposti, accostati, si incontrano distonici, sintonici, assonanti, noncuranti: sono scritture architettoniche che il tempo ha inciso a casaccio. 
Attorno a questo Allegro di pietre ci sono fiori in vaso e fiori che nascono spontanei, rampicanti che ricoprono tutto e muschi che il tempo ha usato come malta sui muri.




La strada che da Dolcedo porta a Bellissimi è breve e in leggera salita. Si arrampica tra gli ulivi, in uno scenario che a ottobre, in piena stagione di raccolta, è uno spettacolo quasi straniante di reti colorate, tese nella penombra, tra i tronchi che si avvitano nella terra.





Subito il paese delle mongolfiere di carta si fa riconoscere per i suoi dipinti sui muri delle case, per le decorazioni alle porte e alle finestre. 
Era mia intenzione farmi raccontare il più possibile attorno a questa particolare tradizione, ma il paese sembra deserto. Incontriamo soltanto un abitante (dei trentanove disponibili, come apprenderò più tardi), che chiacchiera volentieri, ma solo di ciò che vuole lui. Si fa fotografare, poi ci saluta con un cenno della mano e si mette ad aspettare un bus che sembra non arrivare mai.


I balui si lanciano la prima domenica di settembre in occasione della festa della Madonna della Misericordia, ma di più non mi è dato di scoprire. Sono mongolfiere fatte di carta, simili alle lanterne orientali. Sono cugine delle maniche a vento, ma più libere, di più facili costumi per così dire. 
Si abbandonano al vento con la fiducia di chi, per natura, non prende una direzione. 
Bellissimi, come molti paesi arrampicati sulle colline, mostra la sua bellezza più tipica negli spigoli.



Quando torniamo a Dolcedo, mi dico che forse meglio così, meglio non aver saputo niente: tutto ciò che vola sfugge al controllo per definizione. Questo, mi serva da lezione.
Dopo una breve sosta per il pranzo, riprendiamo la strada per Valloria. 
Sono sette chilometri di salita che non dà tregua, ma il traguardo ripaga del tutto della fatica.
Valloria è entrata nel circuito dei "paesi dipinti" italiani in virtù delle sue porte.
L'idea di trasformare le vecchie porte del borgo in tavole da dipingere, a disposizione di artisti di varia formazione e provenienza, è un'iniziativa che la dice lunga sulla vocazione all'ospitalità di questo piccolo paese. Se poi si pensa che la porta, per sua natura e definizione, è una soglia tra dentro e fuori, tra pubblico e privato, tra un qualcosa e un qualcos'altro, allora il simbolismo si approfondisce.




Lasciamo le bici al sicuro e giriamo a piedi tra le case. 
Penso che questo posto è la cura per chi ha perso l'entusiasmo, è la gita ideale per chi crede di non avere più nulla da guardare. Intanto, crescono in me, a prova di vertigine, l'ammirazione per ciò che vedo e la voglia di dipingere, una volta tornata a casa, ogni battente che ho a disposizione, dalla porta d'ingresso al pensile della cucina. Al ritorno, mi dico, al ritorno.




L'aria si fa più azzurra quando decidiamo di tornare indietro; la discesa ci fa indossare tutti gli strati di cui ci siamo disfatti in salita. 
Io non so niente di più di quando sono partita, se non che per volare bisogna essere pazienti e che per varcare una porta, a volte, basta disegnarci un giardino, o una cerniera. 
A ben vedere, non è molto, ma nemmeno così poco.






















domenica 6 settembre 2015

Elogio della deviazione. Da Bobbio a Piacenza

di Giulia Cocchella



Lasciare la strada vecchia per la nuova è proverbiale. E il proverbio - la voce del buon senso - dice che chi si abbandona a questi slanci non sa a che cosa va incontro. Vero, verissimo: e qui sta la sorpresa!




 

Facciamo colazione al bar pasticceria di fronte alla Cattedrale, nell'aria quasi fredda del mattino.
Decidiamo di vedere con calma Cattedrale, Basilica e Castello, persino di fare un ultimo saluto al Ponte Gobbo dal letto del fiume.











Questa lentezza dell'andare ci ricompensa gli occhi con le piastrelle policrome e i mosaici della cripta di S. Colombano, uno spicchio pallido di luna sopra la torre campanaria, ghiande sparse lungo la strada come monete preziose e balconi fiabeschi che si aprono tra le fronde delle querce con tanta naturalezza che non sai dire se è nato prima l'albero o il castello.





Sulla testiera settecentesca di un letto per bambini, al Castello, troviamo un'intera famiglia di grilli: ce n'è uno che va in bicicletta!


Lasciata alle nostre spalle Bobbio, ci avviamo lungo la statale 45, che potrebbe portarci dritte fino a Piacenza, con il fermo proposito di abbandonarla dopo pochi chilometri. La variante ci è stata suggerita da una persona fidata e al bivio per Donceto non esitiamo: deviazione.
La strada si arrampica ripidissima tra case, aziende vinicole e vigneti, con una pendenza che per qualche metro ci obbliga a scendere dalla bicicletta. Fanno sempre così, le deviazioni, cercano di scoraggiarvi, di farvi pensare che si stava meglio prima, che la via maestra è quella che avete appena abbandonato, che chi lascia la strada vecchia per quella nuova... Fanno così per mettervi alla prova, ma appena si accorgono che perseverate, subito dietro la curva vi offrono una mela.


Di salita ce n'è ancora per poco, poi girate a destra in direzione Travo, ci consolano gli autoctoni. Infatti a un certo punto la strada raddrizza il suo corso e ci guida in un piacevole sali-scendi tre i vigneti: uva bianca e uva nera (dolcissima!) a perdita d'occhio.




















Tra le quinte prospettiche dei filari, che fanno rotolare lo sguardo verso il basso, si indovina il corso del Trebbia: il letto del fiume inizia là dove finisce la vigna; la vigna si arresta tra le pietre bianche del fiume. 
A Travo ci fermiamo nel primo bar aperto per farci preparare un panino da portar via.
La SP40 prosegue in mezzo ai campi, arrotonda covoni gialli alla nostra sinistra e spettina piccoli fiori lilla al passaggio delle biciclette. Passa accanto al Castello di Rivalta, poi si collega alla SP28 subito oltrepassato il lungo ponte che attraversa il Trebbia.
Poco dopo, una ciclabile a bordo strada accompagna in sicurezza fino a Piacenza.




















Così a Piacenza ci arriviamo comunque, ma con l'allegria delle deviazioni: strade nuove, non maestre. Strade che allungano l'estate, che rattoppano i cieli di nuvole dense. 
Strade che all'orizzonte fanno combaciare il verde con l'azzurro.