lunedì 2 marzo 2015

Se una notte d'estate

di Giulia Cocchella

La memoria dei luoghi è nei segni che l'uomo ha scavato nella terra, tra i muri abitati dalle piante, nelle strade tracciate nel bosco e dal bosco cancellate, rimesse a frutto.

Foto di Alessandro Zeggio

Quando ci si sposta in bicicletta, si ha accesso a questi mondi, come se lo spaziotempo, la struttura quadridimensionale dell'universo, potesse essere sperimentata davvero, e soltanto a patto di non superare i venti chilometri orari. 
Insomma, se il viaggio nel tempo è possibile, è un viaggio in bicicletta.

Foto di Marco Monetti

Nel giro alla scoperta delle ferrovie dimenticate, organizzato dagli Amici della bicicletta di Genova, la seconda tappa è tra Varazze e Celle: dei binari non c'è più traccia, ma restano due gallerie buie e piene di ghiaia dove le ruote girano a stento. Tra le due gallerie, dietro un canneto, si apre insospettabile un prato, che ha l'aria di essere stato qualcosa. Mi guardo attorno e tra le cime degli alberi spuntano frammenti stinti di facciate.
Ci raccontano che un tempo, a partire dalla fine dell'Ottocento, in questo luogo sorgeva la Colonia Bergamasca, frequentata da centinaia di bambini che partivano da Bergamo e raggiungevano la Riviera con treni speciali. Treni che fermavano proprio qui, tra le due gallerie. Mi sembra di vederli, i vagoni in sosta, che si fermavano a lungo, immagino, per far scendere tutti quei ragazzini. Le lamiere che scricchiolano di sole, il vago presentimento del mare che respira là dietro. E gli umori diversi, i sorrisi, i pianti, le silenziose gerarchie che si stabiliscono crudeli tra i più grandi e i più piccoli, le amicizie che a quell'età attaccano la pelle con la pelle, con l'intensità che più tardi l'amore.
Mi sembra di vedere tutto, tutto quello che non c'è, ma che si intuisce dalle finestre semichiuse, dagli oggetti abbandonati a terra, dagli scorci che si aprono - reali? - dietro le porte. Entrare non è più possibile, anche se si varcasse la soglia.

Foto di Alessandro Zeggio

Il nostro Giorgio Sacchi, l'Amministratore delle Colonie, ci racconta le fasi costruttive dei diversi padiglioni che compongono la struttura, ci spiega che il bosco alle nostre spalle è in realtà un parco dove è possibile rintracciare moltissime varietà di alberi e ci parla dei progetti di riqualificazione. 
Un orecchio lo ascolta, l'altro è teso a captare i rumori antichi: la voce acuta delle Signorine che richiamano i bambini, l'altoparlante che la mattina rompeva il silenzio e zittiva i passeri per dare la sveglia ai piccoli ospiti, le fiabe registrate che gracchiavano nelle camerate buie per addormentarli. E poi un brusio costante come di calabroni, le voci di tutti quei ragazzi che parlano e parlano insieme, qualcuno che grida silenzio, e quell'onda di voci che scansa l'urlo come uno sciame e poi ritorna compatta, nell'afa di Agosto.
Ritorno al prato, alle nostre biciclette gettate sull'erba e alle parole di Giorgio.
C'è una statua, nel bosco, poco lontano da qui, che raffigura Andreina, la figlia di uno dei costruttori, apprendo.

Foto di Alessandro Zeggio

Era morta bambina e i genitori vollero ricordarla con una scultura che la ritrae seduta su un sasso.
Andiamo a vederla. Andreina è anche lei del colore del sasso, la sua posa di pietra che la costringe per sempre a dare calci all'aria con il piede destro. Un piede a cui manca un pezzo, staccatosi dalla statua per un urto, forse, per un gioco maldestro. E da allora, ci racconta la nostra guida, Andreina incominciò ad aggirarsi tra i letti, di notte, tastando i piedi ai bambini, alla ricerca di quello che aveva perduto.
Immagino lunghe camerate buie, i letti ordinati sui lati della stanza, milioni di scherzi ai danni dei più piccoli, di quelli che finivano sempre a contare, di quelli che nessuno voleva in squadra. Milioni di scherzi, moltiplicati per cento bambini, e per altri cento, per decine di notti d'estate. Tranne una, in cui nessuno scherzava - io no, te lo giuro, neanch'io, io neppure – e Andreina è arrivata davvero. L'hanno vista tutti quelli che erano svegli, sfilava bianca tra i letti, una bambina come loro, solo un po' sbiadita, gli occhi più bui del buio.
Poi è capitato di vederla nel bosco, a chi giocava a nascondino. Anche Andreina stava nascosta, ma la tradì un lembo del suo mantello rosso, spuntato tra gli alberi come il manto di un animale selvatico.
Uno scherzo dei ragazzi più grandi? Trucco o magia? Comunque scapparono tutti.

Foto di Giovanni Novara

In un posto imprecisato del bosco, sembra che il padre della bambina abbia sotterrato il piccolo pettine e lo specchio, così nessuno poteva sapere vicino a quale albero era meglio non scavare, o in quale porzione di terra, sotto al grande prato, avrebbero scricchiolato i denti del pettine, al passaggio.
Riprendiamo le biciclette e ci lasciamo alle spalle la collina, il bosco e la Colonia per pedalare alla volta di Celle e poi di Savona.
Tra un anno, se tutto va come ci si augura, sfruttando i vecchi tracciati ferroviari e ritagliando all'occorrenza una corsia riservata sull'Aurelia, sarà possibile percorrere in bicicletta tutta la strada da Voltri a Savona. Lo spaziotempo che ancora una volta raduna le sue quattro dimensioni: vedi il treno, poi vedi la strada per chi ancora ha fretta, poi volti la carta... e vai in bicicletta!


Soltanto l'idea mi elettrizza, ma niente: ormai nella testa mi sono entrati i fantasmi.
Il bel giro termina a Savona, ma io e il Capitano decidiamo di proseguire in bicicletta sino a Finalborgo, a salutare un'amica.
È così che conosciamo Adriano. Fa ruotare tra le sue mani, nell'aria, nell'incavo del gomito, una sfera di vetro che ci ipnotizza. Fermiamo le bici.

Foto di Alessandro Zeggio

Posso farvi un gioco con le carte? ci chiede. Certo!
Una Donna di Picche si trasforma tra le mie mani chiuse in Donna di Denari.
Stupisco, poi rido. Trucco o magia?
Il confine è sottile, mi risponde Adriano.