di Giulia Cocchella
La memoria dei
luoghi è nei segni che l'uomo ha scavato nella terra, tra i muri abitati dalle piante, nelle strade tracciate nel bosco e
dal bosco cancellate, rimesse a frutto.
Foto di Alessandro Zeggio |
Quando ci si sposta in bicicletta, si
ha accesso a questi mondi, come se lo spaziotempo, la struttura
quadridimensionale dell'universo, potesse essere sperimentata
davvero, e soltanto a patto di non superare i venti chilometri orari.
Insomma, se il viaggio nel tempo è possibile, è un viaggio in
bicicletta.
Foto di Marco Monetti |
Nel giro alla scoperta delle
ferrovie dimenticate, organizzato dagli Amici della bicicletta di Genova, la seconda tappa è tra Varazze e Celle: dei
binari non c'è più traccia, ma restano due gallerie buie e piene di
ghiaia dove le ruote girano a stento. Tra le due gallerie, dietro un
canneto, si apre insospettabile un prato, che ha l'aria di essere
stato qualcosa. Mi guardo attorno e tra le cime degli alberi spuntano
frammenti stinti di facciate.
Ci raccontano che un tempo, a partire
dalla fine dell'Ottocento, in questo luogo sorgeva la Colonia
Bergamasca, frequentata da centinaia di bambini che partivano da
Bergamo e raggiungevano la Riviera con treni speciali. Treni che
fermavano proprio qui, tra le due gallerie. Mi sembra di vederli, i
vagoni in sosta, che si fermavano a lungo, immagino, per far scendere
tutti quei ragazzini. Le lamiere che scricchiolano di sole, il vago
presentimento del mare che respira là dietro. E gli umori diversi, i
sorrisi, i pianti, le silenziose gerarchie che si stabiliscono
crudeli tra i più grandi e i più piccoli, le amicizie che a
quell'età attaccano la pelle con la pelle, con l'intensità che più
tardi l'amore.
Mi sembra di vedere tutto, tutto quello
che non c'è, ma che si intuisce dalle finestre semichiuse, dagli
oggetti abbandonati a terra, dagli scorci che si aprono - reali? -
dietro le porte. Entrare non è più possibile, anche se si varcasse
la soglia.
Foto di Alessandro Zeggio |
Il nostro Giorgio Sacchi,
l'Amministratore delle Colonie, ci racconta le fasi costruttive dei
diversi padiglioni che compongono la struttura, ci spiega che il
bosco alle nostre spalle è in realtà un parco dove è possibile
rintracciare moltissime varietà di alberi e ci parla dei progetti di
riqualificazione.
Un orecchio lo ascolta, l'altro è teso a captare i
rumori antichi: la voce acuta delle Signorine che richiamano i
bambini, l'altoparlante che la mattina rompeva il silenzio e zittiva
i passeri per dare la sveglia ai piccoli ospiti, le fiabe registrate
che gracchiavano nelle camerate buie per addormentarli. E poi un
brusio costante come di calabroni, le voci di tutti quei ragazzi che
parlano e parlano insieme, qualcuno che grida silenzio, e quell'onda
di voci che scansa l'urlo come uno sciame e poi ritorna compatta,
nell'afa di Agosto.
Ritorno al prato, alle nostre
biciclette gettate sull'erba e alle parole di Giorgio.
C'è una statua, nel bosco, poco
lontano da qui, che raffigura Andreina, la figlia di uno dei
costruttori, apprendo.
Foto di Alessandro Zeggio |
Era morta bambina e i genitori vollero
ricordarla con una scultura che la ritrae seduta su un sasso.
Andiamo a vederla. Andreina è anche
lei del colore del sasso, la sua posa di pietra che la costringe per
sempre a dare calci all'aria con il piede destro. Un piede a cui
manca un pezzo, staccatosi dalla statua per un urto, forse, per un
gioco maldestro. E da allora, ci racconta la nostra guida, Andreina
incominciò ad aggirarsi tra i letti, di notte, tastando i piedi ai
bambini, alla ricerca di quello che aveva perduto.
Immagino lunghe camerate buie, i letti
ordinati sui lati della stanza, milioni di scherzi ai danni dei più
piccoli, di quelli che finivano sempre a contare, di quelli che
nessuno voleva in squadra. Milioni di scherzi, moltiplicati per cento
bambini, e per altri cento, per decine di notti d'estate. Tranne una,
in cui nessuno scherzava - io no, te lo giuro, neanch'io, io neppure
– e Andreina è arrivata davvero. L'hanno vista tutti quelli che
erano svegli, sfilava bianca tra i letti, una bambina come loro, solo
un po' sbiadita, gli occhi più bui del buio.
Poi è capitato di vederla nel bosco, a
chi giocava a nascondino. Anche Andreina stava nascosta, ma la tradì
un lembo del suo mantello rosso, spuntato tra gli alberi come il
manto di un animale selvatico.
Uno scherzo dei ragazzi più grandi?
Trucco o magia? Comunque scapparono tutti.
Foto di Giovanni Novara |
In un posto imprecisato del bosco,
sembra che il padre della bambina abbia sotterrato il piccolo pettine
e lo specchio, così nessuno poteva sapere vicino a quale albero era
meglio non scavare, o in quale porzione di terra, sotto al grande
prato, avrebbero scricchiolato i denti del pettine, al passaggio.
Riprendiamo le biciclette e ci lasciamo
alle spalle la collina, il bosco e la Colonia per pedalare alla volta
di Celle e poi di Savona.
Tra un anno, se tutto va come ci si
augura, sfruttando i vecchi tracciati ferroviari e ritagliando
all'occorrenza una corsia riservata sull'Aurelia, sarà possibile
percorrere in bicicletta tutta la strada da Voltri a Savona. Lo spaziotempo che ancora una volta raduna le sue quattro dimensioni: vedi il treno, poi vedi la strada per chi ancora ha fretta, poi volti la carta... e vai in bicicletta!
Soltanto l'idea mi elettrizza, ma
niente: ormai nella testa mi sono entrati i fantasmi.
Il bel giro termina a Savona, ma io e
il Capitano decidiamo di proseguire in bicicletta sino a Finalborgo,
a salutare un'amica.
È così che conosciamo Adriano. Fa
ruotare tra le sue mani, nell'aria, nell'incavo del gomito, una sfera
di vetro che ci ipnotizza. Fermiamo le bici.
Foto di Alessandro Zeggio |
Posso farvi un gioco con le carte? ci
chiede. Certo!
Una Donna di Picche si trasforma tra le
mie mani chiuse in Donna di Denari.
Stupisco, poi rido. Trucco o magia?
Il confine è sottile, mi risponde
Adriano.
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