lunedì 17 aprile 2017

La pazienza della terra. Val Bormida

di Giulia Cocchella




Sulla strada che da Dego sale a Piana Crixia, è il timo in fiore a colorare il passo. Divide il suo regno con le orchidee selvatiche, che prediligono i prati, si arrocca sui calanchi di argilla, dove le sue radici trovano il giusto secco, si affianca alle ginestre ancora in attesa dei fiori.
Pianta di poche pretese, il timo, e di molto profumo. Lamiacea al pari delle orchidee: in entrambe le specie i fiori sono come gole - laimos- che sembrano inghiottire gli insetti quando vi si intrufolano (ma è tutta scena).



Saliamo lenti, accordando i pedali al respiro, perché la strada è a tratti impegnativa. 
Parla poco anche mio zio, che questi posti li conosce e sa bene quando la salita impone di tacere. 
Che bello, penso, essersi dati appuntamento in bicicletta!


Sulla sponda di un meandro della Bormida, appena sotto il borgo di Piana Crixia, inaspettato e gigantesco ci si para davanti il Fungo. Il nome è adatto alla sua forma, ma non si può dire che sia spuntato da un giorno all'altro. Risultato di una lunga storia di erosioni e di equilibrio, di quella pazienza della terra che sono i fenomeni geologici, il suo gambo è una colonna di agglomerato argilloso e il cappello un masso di granito. Che sta su. Merito della pietra, che ha tenuto al riparo dal dilavamento la terra sottostante. E merito della terra, che lentissimamente ha sollevato quella pietra a quindici metri di altezza. Dal posto in cui ci siamo fermati ad osservarlo, questo gigante gentile sembra mostrare il segreto del suo equilibrio in perenne costruzione: a guardar bene ci sono una piccola curva dorsale e una più accentuata curva cervicale che sostiene una calotta cranica antichissima, di pensiero condensato in roccia. Della curva più bassa, quella lombare, si perdono le tracce tra l'erba.


Lungo la strada per Giusvalla ci accompagna  il volo colorato delle ghiandaie e a tratti dal bosco arriva il fruscio di animali nascosti.


Poi il paesaggio cambia e tutto attorno abbiamo solo il verde acceso dei prati.
Quando arriviamo a Giusvalla, la zia ha già apparecchiato: dalla cucina arriva profumo di buono.
Chiacchieriamo di viaggi, di libri, di persone, di com'era e di com'è. I piatti si svuotano, i bicchieri si riempiono di bianco e di rosso mentre fuori dalla finestra la luce cambia e a un tratto è già l'ora di ripartire.
La zia mi mostra qualche vecchia fotografia. Ce n'è una tra tutte bellissima. Forse l'ha scattata proprio mio zio, che è l'unico rimasto fuori dall'inquadratura. Mi piace immaginare che sia lui - dodici o tredici anni - che corre poco più avanti a tutti e fa scattare l'otturatore. Mi piace pensare che sia un giorno di maggio, di quelli caldi, presi in prestito dall'estate. Via Paleocapa mostra di sé una quinta di portici e i fanali di un'auto di allora. Mia nonna ha le gambe snelle. Mia mamma, minuscola, guarda a sinistra e non si accorge di nulla. O fa solo finta?


Pedalando verso Albisola, al ritorno, le discese mi gelano le guance e fanno scorrere in rapida sequenza le fotografie di oggi. Quelle che non ho scattato, ma che ugualmente conservo. 
Ripenso alla pazienza della terra, che solleva le pietre dal suolo. Alle piante pioniere, che si arrampicano sui calanchi e fanno strada agli arbusti. Se le piogge non saranno violente, se questo processo lentissimo non sarà interrotto da frane improvvise, da accidenti naturali, da tutti quegli eventi giganteschi e minimi arbitrati senza giudizio, senza dolore, allora compariranno i primi alberi.
Con un po' di fortuna, anche se non esiste fortuna, gli alberi cresceranno in numero e grandezza: è così che nascono i boschi, e le famiglie.