venerdì 24 aprile 2015

Valli di Comacchio. Pedalare sull'acqua

di Giulia Cocchella

Questa mattina mi alzo presto e faccio colazione in un bar subito dietro i Tre Ponti. 
Non so esattamente che strada seguirò oggi, l'unica certezza è che ho voglia di vedere le Valli il più possibile, sfruttando tutto il tracciato della FE 417 e della FE 40 fino all'Oasi di Boscoforte. 
Sulla strada per Argenta, dove devo arrivare entro sera perché è il paese con stazione ferroviaria più vicino, ci sono pareri diversi. Ieri un piccolo comitato di autoctoni incontrati per caso ha deliberato che passassi per Longastrino, ma in questo modo non completerei il giro delle Valli. Di altro avviso era il proprietario del b&b e stamattina il barista mi suggerisce una strada ancora diversa. Quando i consigli sono discordanti, quella è una buona occasione per fare di testa propria, o almeno un'attenuante!
L'argine è territorio indiscusso dei moscerini. Mi fermo ogni tanto a fotografare i casoni nella luce radente di questa mattina, più bella di ieri. 




Sono case sull'acqua, un tempo fatte di paglia e canne palustri, rifugi e strumenti di una pesca stanziale che non conosce tempeste. Alcuni sono costruiti in legno, altri in lamiera ondulata, altri ancora hanno il vezzo di una tendina alla finestra. Ce n'è uno che sorge dallo scafo di una barca, improbabile stadio evolutivo di un cassero fuori misura. Più avanti del fasciame non resta che il perimetro roso dall'onda, archeologia di un diritto edilizio, occupazione di suolo terracqueo del tempo che fu.


Sono belli i casoni di valle, stanno all'acqua come la casa sull'albero sta al vento: galleggiano senza contatto, ondeggiano senza pericolo, permettono viaggi dello sguardo senza chiedere un addio.
Superata la Stazione Foce, giro a destra e subito la pedalata prende lo slancio del volo. 







Corro su una striscia sottile di terra circondata dall'acqua su entrambi i lati: panorama a perdifiato che mi sfila a destra e a sinistra, che solleva voli bianchi, stormi di anatre, gabbiani, garzette. Un airone batte l'aria con le ali, proprio a un passo da me, si alza in alto. Lascia nello spazio vuoto dietro di sé il mistero del volo.
All'orizzonte si intravede piccola una casa rosa. È un casone in muratura sulla sua isola, collegata al sentiero da un ponte di legno. Faccio un giro tutto attorno in cerca di segni di passaggio, di una finestra mal chiusa. Non c'è nessuno, da tempo, probabilmente. Riattraverso il ponte sotto lo sguardo dei gabbiani, guardiani dell'isola.


 






La ciclabile prosegue ancora in mezzo all'acqua, sospesa tra il cielo e il suo riflesso, poi si interrompe e l'ultimo tratto coincide con la strada provinciale.




Arrivo fino a S. Alberto, di fronte all'Oasi di Boscoforte, dove incontro ancora i fenicotteri, alcuni rosa, altri grigiastri: i piccoli.


Qui inizia il “lungo Reno”, che alcuni mi avevano sconsigliato di percorrere. Non tardo a capire perché.
La strada, sterrata, segue per più di trenta chilometri il corso del fiume, prima sull'argine, poi tra l'argine e i campi. Non c'è anima viva, il sentiero è sempre dritto e sposta l'orizzonte senza l'appiglio di una curva, una salita, un albero. Misuro col pedale questa solitudine, che trascorre tanto più lenta o più veloce, quanto più faccio forza sui pedali. È una di quelle strade che sembrano non finire mai. A volte capita di incontrarle, in bicicletta: sono strade che allenano la fiducia.


Arrivo ad Argenta poco dopo l'ora di pranzo, ho ancora tutto un pomeriggio di sole.

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