domenica 2 novembre 2014

Camogli. La bellezza è sotto i nostri occhi

di Giulia Cocchella


Andare a Camogli in bicicletta mi piace perché non c’è bisogno di prendere il treno per avvicinarsi: lo permettono i pochi chilometri e la qualità del percorso, quasi senza traffico se partite da Genova in un giorno di festa.
La strada mi riserva scorci mattutini di pura bellezza.


A Nervi mi fermo per fare colazione con una brioche farcita al momento con marmellata di fichi: la sgranocchio fronte a mare, il riflesso del sole che quasi mi fa chiudere gli occhi.


Proseguo passando tra le case di Nervi, poi Bogliasco, Pieve, un tratto di salita dopo Sori, e giù in discesa verso Recco. Dietro una delle mie curve preferite, la vecchia via Aurelia spalanca davanti ai miei occhi un panorama abbagliante: due araucarie, alberi che sembrano usciti dalla matita nera di un disegnatore visionario, ritagliano un orizzonte color argento.
Il Promontorio di Portofino è una grande isola sospesa nella luce.


Arrivata a Camogli penso di telefonare a Marta e Geraldina per prendere un caffè insieme, ma le trovo già in passeggiata, Giulia! mi sento chiamare. È bello chiacchierare così, passare con disinvoltura da un argomento all’altro mentre il sole è sempre più caldo e là sotto, in spiaggia, qualcuno fa il bagno. 



Poco più tardi, nel porticciolo dietro la chiesa, ritrovo i riflessi.
Li avevo scoperti molti anni fa, a Boccadasse, quando un dito, per caso, mi era scivolato troppo a lungo sullo zoom. E li rivedo qui, nell’acqua che circonda le barche, davanti a queste facciate così liguri, i cui colori diversi dovevano aiutare i marinai a riconoscere casa propria quando tornavano dal mare, a ca’ mogli appunto, a riportare baci a spose e fidanzate. E queste case, le tinte diverse, il verde delle persiane, si stemperano nell’acqua come se un pittore avesse pulito il pennello nel mare. 



Mi viene in mente Daubigny, nel suo atelier galleggiante sul battello Botin, prima ancora del Salon des Refusés, prima che Renoir e Monet si facessero stordire dai colori dell’acqua alla Grenouillère.

Claude Monet, La Grenouillere

Charles-Francois Daubigny, Anatroccoli in un paesaggio fluviale

Charles-Francois Daubigny dipingeva la Senna sulla Senna – non doveva soffrire lo sciabordio – la luce con la luce, l’acqua con l’acqua, en plein air. E se era contento del suo lavoro, allora aggiungeva un’anatra. Due, se il dipinto era venuto più che bene. E così via, fino a cinque, sei anatre anche, a seconda della sua personale soddisfazione. 

                   


                   
Mi fermo ancora un po', a fare scorta di bellezza.

"Quale necessità abbiamo di risalire alla storia, di rifugiarci nella leggenda, di consultare i registri dell’immaginazione? La bellezza è sotto i nostri occhi” Jules Castagnary, 1876

martedì 28 ottobre 2014

Pedalando con Montale. Da San Lorenzo a Ospedaletti


di Giulia Cocchella

La ciclabile di Sanremo, dalla primavera scorsa, ha acquisito cinque chilometri in più. Non sono molti, ma vi accompagnano fino a Ospedaletti, il cui fronte a mare giustifica il viaggio, breve o lungo che sia.


Io e Valeria partiamo da Imperia, stazione di Porto Maurizio, seguiamo la Via Aurelia fino a S. Lorenzo al Mare e da lì ci immettiamo sulla ciclopedonale che porta alla Città dei Fiori. Il clima è mite, il sole manda una luce abbagliante e ferma – la sensazione che ritrovo è ogni volta la stessa: un cielo immobile ad un mezzogiorno perenne, un buon tempo imperturbabile – e Valeria continua a ripetere che questo è il paradiso. Il giardino edenico forse non aveva nemmeno fiori come questi.

                             























Pedaliamo vicine e tutto a un tratto, inaspettato, ci raggiunge Montale. Valeria recita a memoria: Ed ora son spariti i circoli d’ansia / che discorrevano il lago del cuore / e quel friggere vasto della materia / che discolora e muore. / Oggi una volontà di ferro spazza l’aria, /divelle gli arbusti, strapazza i palmizi … Mi sembra di vedere una sagoma scura alla mia sinistra. Vestito elegante come sul cofanetto dei Meridiani, il faccione pieno, le orecchie tonde, su una cittadina leggera, senza marce, con la sella fasciato di cuoio, il poeta affianca la sua bici alle nostre. Non dico niente. Non mi volto neppure, ruoto solo gli occhi fin dove mi è possibile. Non lo potrei giurare, ma forse c’è persino un’upupa sul suo manubrio, spettinata dal vento: un campanello di piuma. Valeria intanto si scusa di non ricordarsi bene, è la poesia di Montale che preferisce, "L’agave su lo scoglio", non una sola poesia a dire il vero,  un trittico piuttosto, in cui ogni componimento è dedicato ad un vento. Io me la ricordo appena, prometto che andrò a rileggerla e penso questa promessa ad alta voce, la penso fortissimo perché il poeta, che sicuro si è accorto delle mie lacune, possa perdonarmi. 
Mi sembra di sentirlo sospirare. O forse è il mare, qui sotto. 


Oltrepassiamo la vecchia stazione di Sanremo,  il cui orologio è un simbolo inconsapevole di decadenza e trasformazione, così collassato su se stesso, senza più lancette, né numeri, nido per tortore, forse: qui il treno non passa più, l’intera ciclovia è costruita sul vecchio tracciato ferroviario dismesso. Ore perplesse... , mi sussurra una voce all’orecchio, tutto schianta l'ora che passa...


Pedaliamo oltre e ci attende una lunga galleria con frasi dipinte sull’asfalto e pannelli che ricordano i personaggi celebri della classicissima Milano-Sanremo. Poco più avanti, allegre e sfrontate come vacche in mezzo alla strada, le biciclette occupano l' ex stazione di Ospedaletti.


Ogni tanto mi giro veloce indietro, sacrifico volentieri l'equilibrio per un ultimo sguardo, ma il poeta non c'è più, il momento è passato. 
In cambio, proprio sulla nostra strada, incontriamo l'agave.



...come senti nemici / gli spiriti che la convulsa terra / sorvolano a sciami, / mia vita sottile, e come ami / oggi le tue radici.

Me lo immagino, il poeta, è un ragazzino. E la spiaggia è quella di Monterosso. Eugenio, lo chiama sua madre, Eugenio vieni qui. Lo chiama due, tre volte. Nelle pieghe del mare, come altri raccolgono sassi, deve aver già trovato endecasillabi, rime alternate, ossi di seppia.


(in corsivo, citazioni da L'agave su lo scoglio, in Ossi di seppia, Eugenio Montale)


venerdì 3 ottobre 2014

Saluti e Bici. Buone ragioni per leggerlo

di Giulia Cocchella

Hai presente i treni ad alta velocità? Hai presente quanto costa il biglietto?
Chi ci sale, di fatto sostiene che il suo tempo è più prezioso di quello di chi prende un regionale.

Ok, e allora?

Come, allora?

Se è più prezioso deve avere la precedenza, e linee privilegiate, tutto questo a discapito degli altri.

E allora? Quale sarebbe la soluzione? Andare tutti a piedi? Tornare alle carrozze trainate da cavalli?

Lo vedi che non capisci una cippa?

Bisogna rinunciare all’ideologia dell’accelerazione!


Gli interlocutori sono due cani antropomorfi, o due umani con le orecchie da cocker, usciti dalla matita nera e arancione di Alberto Talami. Chi li fa parlare è Alessandro Lise, suoi anche i cip degli uccellini, il meow? del gatto rimasto prigioniero di un copertoncino, lo snap del tronchese di un ladro di bici efferatissimo e l’inequivocabile sblorb del grasso per catene aliene.
Pubblicato da pochi giorni per BeccoGiallo, sotto licenza Creative Commons e su carta certificata FSC, mi è piaciuto, eccome se mi è piaciuto, al punto che lo sto recensendo con una mano sola, che la sinistra ha un metacarpo rotto (il quarto, per i curiosi).
Dalla A di Alfonsina fino alla W di World Naked Bike, passando per la L di Londonderry, Lise e Talami compilano una sorta di enciclopedia a fumetti sulla storia, la manutenzione e la politica della bicicletta, senza nessuna pretesa di completezza o di organicità, ma con il proposito, ben più alto, di divertirci e dire due o tre cose importanti, con levità.
Consigliato a: ciclisti, aspiranti ciclisti, padri, figli, alieni, ladri di biciclette redenti, derubati di bici, curiosi, incriccati cronici da postura culoide prolungata.
Ha anche un buon profumo, di graphic novel appena sfornata, che fa ancora il fumetto.
Che volete di più?


Il testo in corsivo è tratto dal libro : Saluti e Bici, Alessandro Lise e Alberto Talami, BeccoGiallo 2014.

sabato 27 settembre 2014

Frontiere

di Giulia Cocchella


Dici frontiera e subito penso alla carta da lucido su cui mi facevano ricopiare le regioni e gli stati, alle elementari. La frontiera, il confine, era una linea che si doveva poi ricalcare con il trattopen nero, mentre il paese aveva un ripieno colorato, ora di verde, ora di marrone, a seconda che ci fossero pianure o montagne. Là in mezzo c’erano gli uomini, ma quelli non si dovevano disegnare, non c’era spazio a sufficienza e le regole non lo richiedevano.
Che cos’è davvero una frontiera? Che cosa significa varcarla?
“Linee immaginarie che dividono la stessa strada” scrivi, “e separano vite attigue”. Non so esattamente che cosa vuoi dire, ma lo immagino.
È difficile figurarsi un viaggio, se non lo si fa. Così quando mi hai chiesto di seguire le tue orme vere con le mie, più lievi, di inchiostro, ti ho subito messo in guardia: non credo di poterlo fare al posto tuo, scrivi tu! E stai scrivendo cose meravigliose, che arrivano dritte anche a chi ti segue da lontano.


Adesso, dopo la frontiera ostile tra Albania e Macedonia (“Chissà cosa credevano che nascondessi nel fondello dei pantaloni da ciclista!”), dopo una discesa che descrivi velocissima fino al lago di Ohrid – ci sembra di vederlo avvicinarsi all’impazzata, i pedali che mulinano nel vento – adesso sei di fronte a un altro confine, quello con la Grecia.


Cosa c’è dall’altra parte? Difficile, scrivi, documentarsi con precisione su ogni chilometro di un viaggio così lungo. Così l’immediata conseguenza è lo stupore.
Ma poi, perché una linea immaginaria confina una lingua parlata al suo recinto, e di là lo stesso cielo, gli stessi colori, hanno nomi differenti?
È il mistero delle frontiere, il fascino e la paura della soglia.
Forse, dopotutto, è per questo che viaggiamo.




[Tutte le foto sono di Alessandro Zeggio, in viaggio da Genova a Gerusalemme in bicicletta]




mercoledì 10 settembre 2014

Spaesarsi

di Giulia Cocchella

Sei pronto? chiedo ad Ale.
No, risponde con sicurezza.
Rido, e ripenso al mio viaggio in India, per il quale non mi sentivo realmente preparata. Risento quella sensazione forte, alienante, che la mia identità fosse un accidente: la combinazione fortuita di qualche caratteristica personale con un preciso contesto. Stravolto quel contesto mi vedevo reagire in un modo che non mi aspettavo, pensavo cose inattese, rivivevo a tratti quella paura che dobbiamo aver provato tutti, da piccolissimi, davanti allo spettacolo del mondo. Spaesarsi.


Dove dormirai? chiedono gli amici ad Alessandro, prima della partenza, come non si potesse realmente prendere sonno se non a casa propria.
Qualcuno solleva la bici, dice sono quattordici, no, sono sedici chili, ed è senza bagaglio.
Anna D'Albertis prova a fare un giro e quasi perde l'equilibrio.
Alessandro è diretto a Gerusalemme, che è una meta complessa, un luogo archeologico e vivo al tempo stesso, fatto di strati di storia che continuano a sovrapporsi. Nei secoli, chi è andato a Gerusalemme si è prima dato un ruolo, ha scelto una parte. 
Inutile chiedere perché Gerusalemme: certi luoghi esercitano un'attrazione subito dopo averli nominati. 
E poi a dirla tutta, in Terrasanta ci andò anche il Capitano D'Albertis, che già altre volte ha accompagnato idealmente Alessandro nei suoi viaggi, tanto che tra gli Amici della Bicicletta di Genova si è guadagnato il titolo di Capitano.
Enrico Alberto d'Albertis era un viaggiatore moderno, viaggiava per viaggiare, mi ha detto Ale una volta. Andava a cavallo, in idrovolante, in barca a vela, a dorso di cammello. Nel 1872, a ventisei anni, andò da Genova a Torino in bicicletta, su quegli affascinanti, pericolosi animali meccanici che erano le biciclette di allora. 
Non è più possibile cambiare meta, mi spiega, quando parliamo del suo viaggio l'indomani dalle notizie di Gaza.
E non chiamatela ostinazione, chiamatelo entusiasmo.
Non dite azzardo, dite viaggio, dite voglia di incontro, desiderio di spaesarsi.
Togliersi la terra da sotto i piedi, metterne di nuova, e vedere che cosa ci accade.

Buon viaggio Capitano!



lunedì 1 settembre 2014

Foto-grafie

di Giulia Cocchella

Non è per indolenza, lo giuro, che non ho più scritto, ma per assenza di sonno! E perché spesso quando si vive con intensità, non si riesce nel contempo a ragionare sulle cose. Ci provo ora, seduta qui al tavolo della mia cucina, prima di entrare al lavoro (ma si può davvero tornare a lavorare, adesso?). Ci provo senza darmi un ordine, seguendo le immagini e i suoni che mi occupano la testa così come sono, perché quello che abbiamo vissuto insieme mi sembra adesso un'unica grande giornata, intensa e lunghissima, eppure finita troppo in fretta.


Occhi come in un ricordo antico, che ancora guardano attraverso le Centopietre, a Patù. Cento blocchi di tufo che furono prima sepoltura, poi rifugio dei monaci basiliani, affrescati una volta, due, tre, fino a consegnarci, oggi, una stratificazione enigmatica di colori e forme.


 
 

Dedicato a Luigina, con cui ho avuto una piacevole chiacchierata attorno a piante, semi, coltivazione in vaso.
Io lascio crescere tutto quello che cresce, lascio fare alla terra, mi ha detto. Credo anch'io che la terra abbia una saggezza sua propria, che possiamo solo rispettare e provare a comprendere. 

Si racconta che Scazzamurieddu sia un folletto piccolo, gobbo e parecchio peloso, che si aggira tra le salvie e i rosmarini con il suo berretto rosso. Nelle stalle intreccia le code dei cavalli e tormenta le famiglie con i suoi continui scherzi. 

                                    


Nei campeggi salentini, ama appendere le scarpe ai cavi della luce, oppure si diverte ad intrecciare i lacci al contrario. Talvolta arriva persino a girare il telo esterno delle tende, in modo che il malcapitato non trovi più l'ingresso!

Caterina che alla partenza ci saluta con la mano, perché un po'si commuove. 

Il piacere di ruotare veloce la mano sulla pelle del tamburo e produrre un suono. Suono che una volta trovato il giusto ritmo, accelera, ipnotizza, intrappola. 

Irene e Pier che fanno acrobazie in bicicletta, e io in mezzo a loro, a sfidare la forza di gravità. 
Il tema dell'equilibrio che torna una, due, tante volte, chissà perché.







Riscoprire fame, sete, caldo, freddo, sudore, sbucciature da scoglio, mal di piedi da ballo.
Riscoprire il sapore dei fichi, ancora più buoni se raccolti al volo, staccando una mano dal manubrio.

C'è un supermercato, vicino a Ugento, che se ci arrivi in bicicletta ti accolgono come un eroe. Una dipendente prende il microfono per le comunicazioni interne e urla hip hip urrà per i ciclisti! c'è un gruppo di 43 ciclisti nel nostro supermercato! un applauso per i biciclisti! più forte, più forte! I ragazzi del reparto salumi e formaggi escono da dietro i loro banconi per fare una foto con noi. Io e Marzia quasi cadiamo dalla sella per le risate. 

C'è un'ora del giorno in cui le ombre sono così lunghe che arrivano al campeggio prima di noi.



Davide che suona sul mio tamburo una musica che incanta e io penso che adesso, quell'incanto, è chiuso dentro il mio tamburo, impresso sulla sua pelle.


Ridere, ridere, ridere, è anche questa una parola sdrucciola, come quelle, meravigliose, di Ciccio! è la ginnastica delle guance, è la festa degli zigomi, la parata dei nasi che si strizzano di gioia!


Ridere com'era da un po' che non ci succedeva, ridere fino alle quattro del mattino





con il vento tra i capelli, con il sole negli occhi


Ridere di gusto, di gioia, coi singhiozzi


Ridere, sorridere, ridacchiare


Sorridere fino alla punta dei capelli


Ridere fino a perdere il senso, ridere con tutto il corpo, nella danza, come non mi era mai capitato.

A Galatina balliamo persino sui binari, per scongiurare l'arrivo del treno.
A Gallipoli, stanchi sfiniti, facciamo per tornare al campeggio con l'ultima navetta, ma un suono di tamburello, in lontananza, ci attira fino in piazza del Duomo, dove ricominciamo a ballare. Balliamo in pineta, tra gli ulivi, improvvisiamo persino una quadriglia in acqua, a Porto Selvaggio.


E poi cercare una fine per questo post, e non trovarla, perché nessuno ha davvero voglia di salutarsi e la musica, se tendi bene l'orecchio, non è mica finita!

...O mamma comu balla la taranta l'ha pizzicau
la pizzicau allu core mamma mia ci dolore...

...O mamma comu balla la taranta l'ha pizzicau
la pizzicau allu core mamma mia ci dolore...

...O mamma comu balla la taranta l'ha pizzicau...