giovedì 23 aprile 2015

Verso Comacchio. Strada d'acqua, di piuma, di erba e conchiglie

di Giulia Cocchella

A darmi il buongiorno questa mattina sono le ranocchie. 
Appena lasciata alle mie spalle l'Abbazia di Pomposa in direzione Volano, nel silenzio intatto sento avvicinarsi un brusio, poi il groviglio di versi è sempre più fitto, finché una voce fuori dal coro mi chiarisce tutto: uno stagno. Mi avvicino e le ranocchie, che fino a un attimo prima non si distinguevano, saltano ovunque a pelo d'acqua.


La ciclabile che porta a Comacchio è la FE 30, è segnalata con la stessa dignità di una provinciale e l'abbondanza di cartelli rassicura sempre sul percorso. In direzione Lido di Volano, si inoltra in un bosco.


Sarà che sono sola - si intravede soltanto la figura di un uomo là infondo, che sembra uscito dal pennello di un paesaggista romantico - sarà che i pini marittimi chiudono le chiome sopra la mia testa e il bosco ha una sua propria voce, fatta di schiocchi, di richiami e ronzii, ma ho la sensazione che il mio passaggio sia sorvegliato. Come se gli animali che sono venuta a vedere, siano loro a guardare me, a studiarmi di nascosto.
Sento un rumore secco e ritmato, alzo lo sguardo: un picchio rosso. Si fa appena vedere, poi scompare lasciandomi un' impressione di rosso, di bianco e di nero.
Proseguo pedalando piano, col naso verso l'alto e le orecchie attente. Ad ogni piccolo rumore mi volto, ma nell'aria volano immobili i moscerini. Un altro schiocco, fermo la bici, ma il bosco ricompone le sue fronde e torna silenzioso.
In prossimità del Lido di Volano, in lontananza vedo la sagoma di quello che sulle prime mi sembra un cane che scodinzola. Mi avvicino lentamente. Le sagome sono due. Sono daini, usciti dal bosco per brucare vicino al sentiero. Ci guardiamo per qualche secondo, fermi io e loro. Poi con un balzo perfetto, nervoso, selvatico, mi attraversano la strada e spariscono tra gli alberi.


Pedalo ancora per un tratto con il rumore dei loro zoccoli alla mia destra, terra battuta, battito di cuore che si allontana e poi svanisce. La loro paura mi sfiora. Allora cerco di fare più lieve la mia ruota sulla strada, più piccolo il mio passaggio qui, su questa terra che condividiamo.
Poi la strada all'improvviso si apre sul mare.


I Lidi sono un panorama strano per chi è abituato al Mar Ligure. Quasi privi d'onda, l'acqua bianca, ricordano piuttosto un paesaggio lagunare. 
La ciclabile prosegue appena dietro la spiaggia, ma a destra compaiono inaspettati i campi. Pedalo su questo confine difficile da credere, che unisce terra e sabbia, che batte l'onda sul campo, che scontra acqua dolce e salata: sotto le ruote, tra l'erba, macino conchiglie.


A Porto Garibaldi un cormorano asciuga le sue ali al sole per poter riprendere il volo.


Comacchio si annuncia colorata, con le prime facciate dipinte e un laghetto appena fuori dal centro coi cavalieri d'Italia come da noi i passeri. Ci sono canali, ponticelli, vecchie imbarcazioni che ospitano ristoranti galleggianti e persone che salutano, che parlano, che consigliano. Non ci impiego poi molto a trovare un posto per stasera. E subito riparto per fare il giro della Valle Fattibello, antistante la città.



È qui che vedo i casoni, le case sull'acqua dei pescatori. Ma non so quasi nulla di questi villaggi galleggianti, lo imparerò domani.



La sorpresa più grande che mi riserva questo circuito ad anello attorno alla Valle sono i fenicotteri.
Non ne vedo uno, non due o tre. Sono tantissimi e chiacchierano incessantemente. Qualcuno dispiega le ali: bianco, rosa, nero. La maggior parte sta con le testa sott'acqua a cercare cibo. Così lo spettacolo è quello di decine e decine di nuvole di piuma, sorrette da zampe lunghissime, che si specchiano nell'acqua bassa e la tingono di rosa. Mi fanno sorridere.




Alla Stazione Pesca Foce ci sono anche aironi e garzette, che imparo a distinguere dal colore del becco e dalle piume sul capo. Gli aironi sono più schivi, almeno quelli che incontro io; garzette e svassi si lasciano fotografare.



Arrivo al Lido Estensi e cerco invano di raggiungere Porto Garibaldi per chiudere il mio giro. Deve prendere il traghetto, mi dice sorridendo una coppia in bici. Il traghetto è un ponte mobile che fa tutto il giorno la spola da una parte all'altra del canale. Il viaggio dura qualche secondo, sul volto del conducente c'è tutta la noia di quell'eterna manovra che si ripete, che basterebbe un ponte in muratura a risparmiargli.
La sera chiudo gli occhi e faccio sogni di piuma, di case sull'acqua, di erba e conchiglie.

mercoledì 22 aprile 2015

Pomposa. Verso Est

di Giulia Cocchella

Quando si tratta di scegliere, si lascia sempre una via per un'altra. Ogni volta stupisco di come viaggiare in bicicletta assomigli così tanto a muoversi nella vita, soltanto ad una scala diversa, parallela: quella del portarsi nel paesaggio, di rinunciare ad un panorama piuttosto che a un altro, di preferire salite o discese per poi accorgersi che non si può che amarle entrambe.
Così rinuncio alla ciclovia Destra Po – novantatré chilometri in un pomeriggio scarso sono troppi per me – e faccio salire la bici piegata sul trenino che da Ferrara porta a Codigoro. 
Fa caldo anche in maglietta, i vetri sono appannati e quando partiamo, con una lentezza degna di un treno di altre epoche, potrei illudermi di essere caduta in una tana del tempo.
Da Codigoro a Pomposa è davvero una passeggiata e domani sarà più agevole raggiungere Comacchio.



Svuoto la borsa della bici al b&b e vado a visitare l'Abbazia.
Ci sono spettacoli architettonici che si integrano a meraviglia nella più vasta e antica architettura del paesaggio. Lo fanno così bene che scoprono l'antico segreto della costruzione, quel lontano legame che deve esserci tra gli alberi e le colonne, tra le caverne e le cripte, tra i soffitti a volte e la volta del cielo.


L'Abbazia di Pomposa è così, perfettamente inserita nel panorama circostante, con la sua torre campanaria, faro dei campi, che si alleggerisce mano a mano che sale – conto quattro ordini di monofore, poi bifore, trifore, fino alle quadrifore in alto. Così si propagava meglio il suono delle campane.


Qui Guido d'Arezzo, monaco benedettino, su quella che un tempo era l'Insula Pomposiana, un'isola boscosa circondata da due rami del fiume e protetta dal mare, trovò l'idea della moderna notazione musicale: sette note. Da quel momento si prese a scrivere la musica con un nuovo alfabeto.


All'esterno i bacili di ceramica riverberano il sole, catturano il vento e lo sguardo.
Dentro, lo spazio è sotto l'incanto della pittura a fresco, opera di maestranze bolognesi che da Giotto impararono a dipingere vere le pieghe delle vesti, a ombreggiare i volti, a inserire nelle composizioni linee di forza che danno ad angeli, apostoli e bestie apocalittiche un movimento eterno.
Esco frastornata di meraviglia.


Attorno all'Abbazia c'è un parco e poco distante l'Ufficio del Turismo dove apprendo che il Bosco della Mesola, che vorrei visitare adesso, è aperto solo in alcuni giorni della settimana, non oggi.
Allora decido di non decidere, imbocco una ciclabile a caso tra le tante che si snodano tra i campi e inizio a pedalare.


Alla mia sinistra scorre una via d'acqua e io percorro quella di terra, come avessi le ruote in un binario. Da un albero che non riesco a riconoscere piovono come piccole gocce di pioggia.



Una nutria si affaccia dall'acqua, poi le ombre si allungano e ritorno indietro.









lunedì 6 aprile 2015

Ciclabile dell'Ardesia. Immagini visibili del vento

di Giulia Cocchella

“La bicicletta è la trascrizione dell'energia in equilibrio, l'esaltazione dello slancio” scriveva Cesare Angelini , è “l'immagine visibile del vento”. Oggi il vento è freddo, nonostante ogni dettaglio naturale, ogni scorcio di foglie contro l'azzurro, persino i riflessi verdi degli alberi nel fiume parlino di primavera. Quanto all'equilibrio e allo slancio, faccio quel che posso: le mie ruote da 16 sulla Ciclabile dell'Ardesia sono certamente meglio delle ruote da corsa, ma fanno sorridere.



Da Lavagna a Bassi di Tribogna sono 35 chilometri di strada, ben segnalati da cartelli chiari e inequivocabili, anche se come me pedalate col naso per aria e rompete le bussole con la forza del pensiero.
La strada attraversa Cogorno, Carasco, Scaruglia, San Colombano - apprendo - Coreglia, Pianezza, Monleone e Cicagna: l'ho letto sulla cartina. Ma è il corso dell'Entella a fare da guida, così mi rilasso e pian piano la bici prende quota.
“Tendenzialmente vola; rade ma non tocca la terra”.
La terra ora è fango, ora è sabbia di fiume, asfalto o stretta scia bianca nell'erba. La strada non annoia mai, cambia, si svolge davanti alle ruote sulle prime cittadina, poi sempre più boschiva. Non incontro nessuno.



Poco dopo Carasco, una frana mi costringe a fare una breve deviazione sulla provinciale. Non sarà l'unica che incontrerò. L'alluvione dello scorso autunno ha rovinato non solo il primo tratto di ciclovia lungo la foce del torrente, come credevo, ma gran parte del tracciato.
“E ha il pudore del silenzio. Lo rompe solo col suo trillo fresco, garrulo, primaverile, femminile, uccellesco”.


Io e la Cincia col ciuffo ci incontriamo in mezzo al bosco. È così bella che glielo dico, come mi potesse capire. E forse è proprio così, perché mi guarda per un bel pezzo, da vicino. Il silenzio attorno a noi è come acqua calma, il semplice gesto di aprire la borsa per prendere la macchina fotografica increspa la superficie dell'aria. La cincia cavalca una piccola onda e sparisce.


“Ha la bellezza delle formule elementari, naturali e insieme geometriche”.




Ci sono meraviglie botaniche dappertutto. Sparse nell'erba, sui rami bassi degli alberi da frutto.
Il giallo delle primule selvatiche, il bianco dei bucaneve, il bianco e il rosa dei fiori dell'erica, le viole, le bacche rosse del pungitopo: si capisce come il colore sia un prodotto della natura, prima che il contenuto di un tubetto o la tonalità di un vestito. Si capisce come i nostri siano sempre tentativi di imitazione.



Un rampicante ha ricoperto un palo della luce e lo ha trasformato in albero. La natura a volte ride di noi, penso.


E si riappropria delle pietre a suo modo, le riveste, le sgretola, apre varchi al vento e ai soffitti stellati.


Ci sono case in costruzione e case in cui non abita più nessuno, tranne il fantasma nero di un sacchetto fatto a brandelli, che agita i suoi stracci da un buco del muro.

                               

La porta è aperta, così come le finestre. Non sai se chiamarli legno, e pietra, e ardesia, oppure porta, e muri, e tetto. 

                               

Di una confusione architettonica diversa è prigioniera anche la Torre campanaria del quartiere Prato a Cicagna. 


Mentre poco prima, la Cappella di San Bartolomeo - siamo ai Piani di Coreglia, mi informa una signora che passa con il cane - sembra in perfetto equilibrio con il verde circostante e con i due pini che le fanno da pronao naturale. È qui che mi fermo per il pranzo. La chiesa ha la porta chiusa e le vetrate opache. A un certo punto mi sembra di sentire un merlo che canta all'interno. Mi avvicino alla parete di facciata. C'è una lucertola, dello stesso verde del legno della porta, che si nasconde da me entrando nella sottile fessura sopra la pietra di soglia. Chissà cosa vede, là dentro.



Dopo il bivio per Chichizzola, a pochi chilometri dalla fine del percorso, la ciclabile si interrompe di nuovo e il modo in cui è stata sbarrata la strada mi induce a tornare indietro.
Rivedo tutti i luoghi dove sono già passata, ma dall'altra prospettiva. Penso che è come fare un altro viaggio, ma con la sicurezza nel passo. (“Ogni giro di ruota è un discorso”). Penso che è come ripetere parole già dette, ma a una persona nuova.


(tutte le citazioni sono tratte da La bicicletta, rondine d'argento di Cesare Angelini)


lunedì 2 marzo 2015

Se una notte d'estate

di Giulia Cocchella

La memoria dei luoghi è nei segni che l'uomo ha scavato nella terra, tra i muri abitati dalle piante, nelle strade tracciate nel bosco e dal bosco cancellate, rimesse a frutto.

Foto di Alessandro Zeggio

Quando ci si sposta in bicicletta, si ha accesso a questi mondi, come se lo spaziotempo, la struttura quadridimensionale dell'universo, potesse essere sperimentata davvero, e soltanto a patto di non superare i venti chilometri orari. 
Insomma, se il viaggio nel tempo è possibile, è un viaggio in bicicletta.

Foto di Marco Monetti

Nel giro alla scoperta delle ferrovie dimenticate, organizzato dagli Amici della bicicletta di Genova, la seconda tappa è tra Varazze e Celle: dei binari non c'è più traccia, ma restano due gallerie buie e piene di ghiaia dove le ruote girano a stento. Tra le due gallerie, dietro un canneto, si apre insospettabile un prato, che ha l'aria di essere stato qualcosa. Mi guardo attorno e tra le cime degli alberi spuntano frammenti stinti di facciate.
Ci raccontano che un tempo, a partire dalla fine dell'Ottocento, in questo luogo sorgeva la Colonia Bergamasca, frequentata da centinaia di bambini che partivano da Bergamo e raggiungevano la Riviera con treni speciali. Treni che fermavano proprio qui, tra le due gallerie. Mi sembra di vederli, i vagoni in sosta, che si fermavano a lungo, immagino, per far scendere tutti quei ragazzini. Le lamiere che scricchiolano di sole, il vago presentimento del mare che respira là dietro. E gli umori diversi, i sorrisi, i pianti, le silenziose gerarchie che si stabiliscono crudeli tra i più grandi e i più piccoli, le amicizie che a quell'età attaccano la pelle con la pelle, con l'intensità che più tardi l'amore.
Mi sembra di vedere tutto, tutto quello che non c'è, ma che si intuisce dalle finestre semichiuse, dagli oggetti abbandonati a terra, dagli scorci che si aprono - reali? - dietro le porte. Entrare non è più possibile, anche se si varcasse la soglia.

Foto di Alessandro Zeggio

Il nostro Giorgio Sacchi, l'Amministratore delle Colonie, ci racconta le fasi costruttive dei diversi padiglioni che compongono la struttura, ci spiega che il bosco alle nostre spalle è in realtà un parco dove è possibile rintracciare moltissime varietà di alberi e ci parla dei progetti di riqualificazione. 
Un orecchio lo ascolta, l'altro è teso a captare i rumori antichi: la voce acuta delle Signorine che richiamano i bambini, l'altoparlante che la mattina rompeva il silenzio e zittiva i passeri per dare la sveglia ai piccoli ospiti, le fiabe registrate che gracchiavano nelle camerate buie per addormentarli. E poi un brusio costante come di calabroni, le voci di tutti quei ragazzi che parlano e parlano insieme, qualcuno che grida silenzio, e quell'onda di voci che scansa l'urlo come uno sciame e poi ritorna compatta, nell'afa di Agosto.
Ritorno al prato, alle nostre biciclette gettate sull'erba e alle parole di Giorgio.
C'è una statua, nel bosco, poco lontano da qui, che raffigura Andreina, la figlia di uno dei costruttori, apprendo.

Foto di Alessandro Zeggio

Era morta bambina e i genitori vollero ricordarla con una scultura che la ritrae seduta su un sasso.
Andiamo a vederla. Andreina è anche lei del colore del sasso, la sua posa di pietra che la costringe per sempre a dare calci all'aria con il piede destro. Un piede a cui manca un pezzo, staccatosi dalla statua per un urto, forse, per un gioco maldestro. E da allora, ci racconta la nostra guida, Andreina incominciò ad aggirarsi tra i letti, di notte, tastando i piedi ai bambini, alla ricerca di quello che aveva perduto.
Immagino lunghe camerate buie, i letti ordinati sui lati della stanza, milioni di scherzi ai danni dei più piccoli, di quelli che finivano sempre a contare, di quelli che nessuno voleva in squadra. Milioni di scherzi, moltiplicati per cento bambini, e per altri cento, per decine di notti d'estate. Tranne una, in cui nessuno scherzava - io no, te lo giuro, neanch'io, io neppure – e Andreina è arrivata davvero. L'hanno vista tutti quelli che erano svegli, sfilava bianca tra i letti, una bambina come loro, solo un po' sbiadita, gli occhi più bui del buio.
Poi è capitato di vederla nel bosco, a chi giocava a nascondino. Anche Andreina stava nascosta, ma la tradì un lembo del suo mantello rosso, spuntato tra gli alberi come il manto di un animale selvatico.
Uno scherzo dei ragazzi più grandi? Trucco o magia? Comunque scapparono tutti.

Foto di Giovanni Novara

In un posto imprecisato del bosco, sembra che il padre della bambina abbia sotterrato il piccolo pettine e lo specchio, così nessuno poteva sapere vicino a quale albero era meglio non scavare, o in quale porzione di terra, sotto al grande prato, avrebbero scricchiolato i denti del pettine, al passaggio.
Riprendiamo le biciclette e ci lasciamo alle spalle la collina, il bosco e la Colonia per pedalare alla volta di Celle e poi di Savona.
Tra un anno, se tutto va come ci si augura, sfruttando i vecchi tracciati ferroviari e ritagliando all'occorrenza una corsia riservata sull'Aurelia, sarà possibile percorrere in bicicletta tutta la strada da Voltri a Savona. Lo spaziotempo che ancora una volta raduna le sue quattro dimensioni: vedi il treno, poi vedi la strada per chi ancora ha fretta, poi volti la carta... e vai in bicicletta!


Soltanto l'idea mi elettrizza, ma niente: ormai nella testa mi sono entrati i fantasmi.
Il bel giro termina a Savona, ma io e il Capitano decidiamo di proseguire in bicicletta sino a Finalborgo, a salutare un'amica.
È così che conosciamo Adriano. Fa ruotare tra le sue mani, nell'aria, nell'incavo del gomito, una sfera di vetro che ci ipnotizza. Fermiamo le bici.

Foto di Alessandro Zeggio

Posso farvi un gioco con le carte? ci chiede. Certo!
Una Donna di Picche si trasforma tra le mie mani chiuse in Donna di Denari.
Stupisco, poi rido. Trucco o magia?
Il confine è sottile, mi risponde Adriano.


lunedì 9 febbraio 2015

La bicicletta di Bartali. Una bella storia.

di Giulia Cocchella

Pensate alla bicicletta come un contenitore. Immaginate gli elementi del telaio e la sella come posti in cui nascondere qualcosa. Sono documenti falsi e foto tessere, per fare espatriare centinaia di uomini che altrimenti saranno deportati. Aggiungete che ci troviamo in Italia, a Firenze, tra il '43 e il '44, proprio quando le leggi razziali, in vigore dal '38, diventano ancora più feroci. Sì, avete capito bene, questa storia è una storia vera: la bicicletta è verde e a pedalare è Gino Bartali.


Se penso a Bartali mi viene in mente, come a molti di noi, la celebre foto in cui “Ginettaccio” passa la borraccia a Coppi, istantanea che diventa icona del ciclismo elegante, della rivalità - forse più narrata che reale - che si inchina al rispetto per la fatica, per l'uomo. Anche Gino e Fausto diventano icone, e siccome le mezze tinte non si addicono agli eroi, Bartali incarna il simbolo dell'Italia democristiana, Coppi di quella comunista. Così li vuole la gente, la stampa, l'Italia del dopoguerra. Ma la realtà è più complessa.

Ce lo racconta un bel libro per ragazzi, scritto da Simone Dini Gandini e illustrato da Roberto Lauciello, La bicicletta di Bartali. Pubblicato da Notes Edizioni, si trova in libreria da pochi giorni e potete leggerlo oppure no, è chiaro, solo che se non lo leggete vi perdete una bella storia.


"Mettiamo che Pitagora abbia ragione e i pianeti facciano musica. Mettiamo anche che le ruote della bicicletta di Bartali facciano musica e che questa musica si accordi alla perfezione con quella prodotta dai pianeti.
Mettiamo pure che a questo connubio si aggiunga la canzone di Paolo Conte, che si intitola per l'appunto “Bartali” e non importa un bel niente se non è stata ancora scritta ma è bellissima e tutte le cose belle meritano di esserci sempre. Sarebbe un bel sentire, alla faccia della guerra."

E alla faccia della guerra, Bartali pedalava ogni giorno, per mantenersi in allenamento in previsione del ritorno all'attività agonistica: così diceva alla moglie e al figlio Andrea. Pedalava da Firenze a Genova, e poi da Firenze ad Assisi, quando i nazisti trovarono sospetti quegli allenamenti e la prima tratta venne abbandonata perché troppo pericolosa. Pedalava e non diceva nulla, per proteggere i suoi familiari e perché “il bene si fa ma non si dice”. Solo molti anni dopo, raccontò questa storia al figlio Andrea, dicendogli di tenersela per sé, che un giorno avrebbe potuto raccontarla a sua volta: “Verrà il momento che potrai farlo e te ne accorgerai da solo. Io voglio essere ricordato per le mie imprese sportive e non come un eroe di guerra. Gli eroi sono altri. Quelli che hanno patito nelle membra, nelle menti, negli affetti. Io mi sono limitato a fare ciò che sapevo meglio fare. Andare in bicicletta.”


"...ci sono casi in cui infrangere la legge è l'unica cosa giusta da fare", ci sono momenti in cui scegliere da che parte stare è più che schierarsi, più che vestire un'opinione. Le ruote che girano, la schiena curva che sembra una collina, Gino Bartali ci da l'immagine energica, fisica, della speranza.