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lunedì 6 aprile 2015

Ciclabile dell'Ardesia. Immagini visibili del vento

di Giulia Cocchella

“La bicicletta è la trascrizione dell'energia in equilibrio, l'esaltazione dello slancio” scriveva Cesare Angelini , è “l'immagine visibile del vento”. Oggi il vento è freddo, nonostante ogni dettaglio naturale, ogni scorcio di foglie contro l'azzurro, persino i riflessi verdi degli alberi nel fiume parlino di primavera. Quanto all'equilibrio e allo slancio, faccio quel che posso: le mie ruote da 16 sulla Ciclabile dell'Ardesia sono certamente meglio delle ruote da corsa, ma fanno sorridere.



Da Lavagna a Bassi di Tribogna sono 35 chilometri di strada, ben segnalati da cartelli chiari e inequivocabili, anche se come me pedalate col naso per aria e rompete le bussole con la forza del pensiero.
La strada attraversa Cogorno, Carasco, Scaruglia, San Colombano - apprendo - Coreglia, Pianezza, Monleone e Cicagna: l'ho letto sulla cartina. Ma è il corso dell'Entella a fare da guida, così mi rilasso e pian piano la bici prende quota.
“Tendenzialmente vola; rade ma non tocca la terra”.
La terra ora è fango, ora è sabbia di fiume, asfalto o stretta scia bianca nell'erba. La strada non annoia mai, cambia, si svolge davanti alle ruote sulle prime cittadina, poi sempre più boschiva. Non incontro nessuno.



Poco dopo Carasco, una frana mi costringe a fare una breve deviazione sulla provinciale. Non sarà l'unica che incontrerò. L'alluvione dello scorso autunno ha rovinato non solo il primo tratto di ciclovia lungo la foce del torrente, come credevo, ma gran parte del tracciato.
“E ha il pudore del silenzio. Lo rompe solo col suo trillo fresco, garrulo, primaverile, femminile, uccellesco”.


Io e la Cincia col ciuffo ci incontriamo in mezzo al bosco. È così bella che glielo dico, come mi potesse capire. E forse è proprio così, perché mi guarda per un bel pezzo, da vicino. Il silenzio attorno a noi è come acqua calma, il semplice gesto di aprire la borsa per prendere la macchina fotografica increspa la superficie dell'aria. La cincia cavalca una piccola onda e sparisce.


“Ha la bellezza delle formule elementari, naturali e insieme geometriche”.




Ci sono meraviglie botaniche dappertutto. Sparse nell'erba, sui rami bassi degli alberi da frutto.
Il giallo delle primule selvatiche, il bianco dei bucaneve, il bianco e il rosa dei fiori dell'erica, le viole, le bacche rosse del pungitopo: si capisce come il colore sia un prodotto della natura, prima che il contenuto di un tubetto o la tonalità di un vestito. Si capisce come i nostri siano sempre tentativi di imitazione.



Un rampicante ha ricoperto un palo della luce e lo ha trasformato in albero. La natura a volte ride di noi, penso.


E si riappropria delle pietre a suo modo, le riveste, le sgretola, apre varchi al vento e ai soffitti stellati.


Ci sono case in costruzione e case in cui non abita più nessuno, tranne il fantasma nero di un sacchetto fatto a brandelli, che agita i suoi stracci da un buco del muro.

                               

La porta è aperta, così come le finestre. Non sai se chiamarli legno, e pietra, e ardesia, oppure porta, e muri, e tetto. 

                               

Di una confusione architettonica diversa è prigioniera anche la Torre campanaria del quartiere Prato a Cicagna. 


Mentre poco prima, la Cappella di San Bartolomeo - siamo ai Piani di Coreglia, mi informa una signora che passa con il cane - sembra in perfetto equilibrio con il verde circostante e con i due pini che le fanno da pronao naturale. È qui che mi fermo per il pranzo. La chiesa ha la porta chiusa e le vetrate opache. A un certo punto mi sembra di sentire un merlo che canta all'interno. Mi avvicino alla parete di facciata. C'è una lucertola, dello stesso verde del legno della porta, che si nasconde da me entrando nella sottile fessura sopra la pietra di soglia. Chissà cosa vede, là dentro.



Dopo il bivio per Chichizzola, a pochi chilometri dalla fine del percorso, la ciclabile si interrompe di nuovo e il modo in cui è stata sbarrata la strada mi induce a tornare indietro.
Rivedo tutti i luoghi dove sono già passata, ma dall'altra prospettiva. Penso che è come fare un altro viaggio, ma con la sicurezza nel passo. (“Ogni giro di ruota è un discorso”). Penso che è come ripetere parole già dette, ma a una persona nuova.


(tutte le citazioni sono tratte da La bicicletta, rondine d'argento di Cesare Angelini)


giovedì 8 maggio 2014

Il genere dei fiumi

di Giulia Cocchella

Pensate pure che sia un argomento di poca importanza, quelle domande attorno alle quali solo gli sfaccendati possono perdere il loro tempo, ma io sulle questioni linguistiche mi incaglio, non riesco a passare oltre, a rimanere indifferente. È costituzione, mi dico come per giustificare qualche chilo di troppo, ma davvero è da domenica che ci penso, e più ci penso più il pensiero si allarga, più il pensiero si allarga, più comprende altri argomenti, tutti senza soluzione. La domanda è questa: perché alcuni nomi di fiume sono maschili e altri femminili?
Ridete, ridete pure, ma la lingua non è mai a caso, i nomi connotano le cose, sono il nostro tentativo di comprendere e ordinare il mondo, un mondo che abbiamo trovato creato, fatto e finito, zac, con un albero di mele al centro e guai a chi ne mangia.


Piemonte nascosto in bicicletta, dice il programma, e io non posso fare a meno di iscrivermi perché sono curiosa di natura e se il Piemonte me lo nascondi, subito mi viene voglia di cercarlo, uguale uguale a Eva, tanto per rimanere in tema. Partiremo da Visone, continua il programma, poi incontreremo Rivalta Bormida, Castelnuovo e Cassine, Gamalero, Frascaro e Oviglio, fino ad Alessandria, il tutto lungo il corso – e qui si vede l’astuzia del compilatore – del fiume Bormida. Il Bormida o la Bormida?
Solo un’ora di treno e facciamo scendere le biciclette in un paesaggio completamente diverso da quello di partenza.
La natura ha steso fuori tutti i suoi verdi migliori, ci sono alberi così carichi di verde che sembrano dipinti di fresco, ancora da asciugare, aggiunti con un ultimo colpo di pennello un secondo prima del nostro passaggio.





Nei campi a lato della strada, frusciano spighe di grano, orzo e altri cereali che non conosciamo, mentre nell’aria volano batuffoli di polline enormi, grossi come gatti persiani, che i più romantici paragonano a fiocchi di neve.


Sarà per l’ottima compagnia, o per la strada sempre piana e colma di sole, ma mi sale un sorriso fino alle orecchie e una voglia generosa di cantare, che però riesco a tenere a bada quasi sempre a beneficio dei presenti.
Finché una piccola deviazione ci porta davanti a un panorama fluviale largo e assolato, di quelli che inducono al sospiro… non fosse per l’annosa questione, la Domanda che oggi mi assorbe tutte le energie neuronali residue: è il Bormida o la Bormida che si dispiega davanti a noi?


Perché potete anche semplificare e sostenere che, poiché finisce per a è femmina, ma cosa mi dite allora del Volga? E il Brenta? Che cosa manca loro rispetto alla Loira o alla Dora?
Il nome dei fiumi sarebbe neutro, se esistesse ancora il neutro nella lingua italiana, sostengono alcuni. Ma posto che non esiste, perché abbiamo deciso che un fiume è femmina e l’altro è maschio?
A complicare la questione ci sono i fiumi che cambiano genere. Oh, sì. Il Brenta, fiume maschile nell’uso comune, qualche tempo fa era femmina, si faceva chiamare la Brenta, chiedetelo ai veneti se non mi credete.
Per non parlare dei fiumi che sono fiumi maschi alla sorgente e fiumi femmina alla foce, o viceversa, senza che sia chiaro che cosa capiti loro nel mentre.
Dove non arriva la comprensione, soccorre la poesia: Carducci cita “la Bormida al Tanaro sposa”, da cui si evince che siamo di fronte a un’unione tradizionale, etero, tra un fiume maschio e un fiume femmina, la Bormida, appunto.
E adesso che la guardo bene, la Bormida, non ho più dubbi: ha un animo femminile, è femmina in quest’ansa ampia che distende in mezzo alle rive di fango, è femmina nel modo in cui accoglie le sponde verdi e gli alberi, nella qualità del suo movimento. È femmina perché sono femminili le sue acque nel loro muoversi, tanto che non è chiaro in che direzione vada il fiume.





Proseguiamo ancora, attraversiamo paesi piccoli e quasi disabitati, mentre su tutto dominano i campi e la natura.
Riusciamo a intrufolarci nel parco del Castello di Oviglio, con i suoi alberi secolari, e mi trovo a parlare piacevolmente di piante e talee con Sara, mentre pedaliamo verso Alessandria.


Torno a casa lungo il Bisagno, che ha dato il nome di battaglia al partigiano Aldo Gastaldi, e penso che i fiumi hanno il genere che è loro proprio, che forse la scelta linguistica deriva dall’osservazione, dall’esperienza e nient’altro. Che in definitiva, anche pedalando in capo al mondo, anche dopo il biblico morso della conoscenza, il segreto profondo delle cose, per fortuna, resta intatto.