di Giulia Cocchella
Se scrivo “perdere”, subito si
dispiegano davanti agli occhi scenari tremendi di privazioni, disonori,
vittorie subite, cause perse, perdigiorno e perdizioni. Provo con “perdersi” ed
è ancora peggio: tutti lì a pensare ad Hansel e Gretel, la strada smarrita nel
bosco, la strega che avrebbe voluto stufarli con le patate, la strada sbagliata
e la cattiva strada.
Come sono uguali i nostri
pessimismi.
Ma siamo proprio sicuri?
Perdere completamente l’orientamento
e non sapere più da che parte si è girati, perdersi, insomma, non è poi così
male: per ogni strada smarrita ce n’è una imprevista, quella che non avreste
mai fatto, altrimenti.
A voler mettere i fatti uno in
fila all’altro, col senno di poi, è chiaro che io e Valeria abbiamo iniziato a
perderci sul treno per Modena.
Lasciata Bologna dopo un’abbondante
e tarda colazione, carichiamo le bici sul treno con il fermo proposito di
scendere a Modena e andare a visitare la riserva faunistica del fiume Secchia,
oh sì. Mi sono portata da casa persino il mio bel libretto per riconoscere gli
alberi e ho la macchina fotografica così carica che potrei fare un book ad ogni
zanzara che vola. Non fosse che sul treno, nel vagone biciclette, conosciamo Merlino
e Gioia.
Ci siamo subito simpatici. I ragazzi
sono di Parma, ma vengono da Lucca e precisamente dal Criterium delle mura, una
gara per sole biciclette a scatto fisso. I due hanno l’aria un po’ sfatta, la
gara è iniziata alle due di notte, ci raccontano, ma per tradizione ci si vede
a mezzanotte e prima di mettersi in sella si mangia e si beve. Parecchio. Prima
della partenza, chi non supera la prova etilometro – almeno 0,50 – non è
ammesso alla gara.
Gioia è stata bravissima: unica
donna, ha percorso i dodici chilometri in poco più di otto minuti
Chiacchieriamo, e intanto Merlino,
che a Parma ha una ciclofficina dove ripara e assembla biciclette, mette a posto i
freni della ruota anteriore della bici di Valeria.
Poco prima di salutarci, dove
andate?, ci chiedono. E noi pronte: al parco del fiume Secchia.
Si guardano, sembrano non
conoscerlo. Poi ci raccontano del castello di Canossa.
Eccola lì, la strada imprevista; il
momento in cui la possibilità di cambiare direzione si presenta all’orizzonte e
vuoi lasciarla lì, intentata? inesplorata? persa? La prospettiva si ribalta e
ora tutto quello che sappiamo è che non vogliamo perderci il castello, il suo
profumo di storia antica e ginestre, le colline del Parmigiano.
Ci salutiamo, scendiamo a Modena,
giriamo in bicicletta attorno al suo Duomo, al mistero delle sue metope, poi
torniamo in stazione e facciamo i biglietti per Reggio.
Da Reggio, ci ha spiegato
Merlino, dobbiamo seguire le indicazioni per San Polo d’Enza.
Intanto per iniziare, trovare la
strada per Reggio centro è un’impresa non da poco, complice anche il cartello
infingardo che ci accoglie subito fuori la stazione: “tutte le direzioni”. Ora non
voglio fare facili polemiche, ma usare un rettangolo di metallo, verniciarlo di
bianco e di blu, prendersi anche la briga di fissarlo ad un palo per dire che tutte
le strade portano a Roma, mi pare almeno uno spreco di materiale. Fatto sta
che, contro ogni ragionevole logica, il cartello ci rassicura, ci allarga un
sorriso ebete sulle facce e fa sì che iniziamo il nostro viaggio alla volta di
Canossa con qualche chilometro superfluo. Ma il sole splende, l’umore è alto,
abbiamo appena telefonato ad un b&b che ha un posto per noi...chi ci
ammazza?
Perdersi richiede anche una certa
creatività linguistica. Se per fare un esempio, un esempio qualsiasi, ogni
volta che chiedete un’informazione storpiate orrendamente il nome del paese che
dovete raggiungere, che è sì una tappa intermedia, ma di fondamentale
importanza per arrivare a destinazione, è facile che i vostri soccorritori si
disorientino e vi diano indicazioni diverse.
Scusi, la strada per San Polo,
passando per Bibbiena? Scusi, da che parte per Bibbiona? Bubbiena? Per
Bebbiano? Babbieno? Scusi, Babbiona? Babbuino? Sempre dritte per Bibbiano? Bubbieno?Quando arriviamo finalmente sulla
SP28 siamo così fiere di noi che stacchiamo le mani dal manubrio per applaudirci.
La strada, anche se molto trafficata, ci riserva panorami di rara bellezza e in
barba ai camion che ci spettinano ad
ogni sorpasso, scattiamo foto come giapponesine in vacanza.
All’ennesima rotatoria con nomi di paesi e città fuoriprogramma, incominciamo a valutare l’idea di aver sbagliato strada. È un sospetto che abbiamo avuto sin dall’inizio, una sottile inquietudine che da Reggio, quando abbiamo preso la prima provinciale nel senso opposto a quello utile, non ci ha mai del tutto abbandonate, siamo oneste. Nessun reale sconforto: la sensazione di non essere sulla retta via, ma su una lì vicino, da qualche parte, ci è tutto sommato familiare, al punto che non ci allarmiamo fino ad un’ora che i più definirebbero tarda.
All’ennesima rotatoria con nomi di paesi e città fuoriprogramma, incominciamo a valutare l’idea di aver sbagliato strada. È un sospetto che abbiamo avuto sin dall’inizio, una sottile inquietudine che da Reggio, quando abbiamo preso la prima provinciale nel senso opposto a quello utile, non ci ha mai del tutto abbandonate, siamo oneste. Nessun reale sconforto: la sensazione di non essere sulla retta via, ma su una lì vicino, da qualche parte, ci è tutto sommato familiare, al punto che non ci allarmiamo fino ad un’ora che i più definirebbero tarda.
Alle diciannove e venti
postmeridiane, al secondo giro dell’ennesima rotonda, sfatte come criceti nella
ruota, io e Valeria, Valeria ed io, per la prima volta abbiamo idee diverse
sulla strada da prendere.
I nostri indici da belle
addormentate puntano dritti come fusi: di qua, di là.
Perdibili.
Perse.
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