di Giulia Cocchella
Questa mattina mi alzo
presto e faccio colazione in un bar subito dietro i Tre Ponti.
Non so
esattamente che strada seguirò oggi, l'unica certezza è che ho
voglia di vedere le Valli il più possibile, sfruttando tutto il
tracciato della FE 417 e della FE 40 fino all'Oasi di Boscoforte.
Sulla strada per Argenta, dove devo arrivare entro sera perché è il
paese con stazione ferroviaria più vicino, ci sono pareri diversi.
Ieri un piccolo comitato di autoctoni incontrati per caso ha
deliberato che passassi per Longastrino, ma in questo modo non
completerei il giro delle Valli. Di altro avviso era il proprietario
del b&b e stamattina il barista mi suggerisce una strada ancora
diversa. Quando i consigli sono discordanti, quella è una buona
occasione per fare di testa propria, o almeno un'attenuante!
L'argine è territorio
indiscusso dei moscerini. Mi fermo ogni tanto a fotografare i casoni
nella luce radente di questa mattina, più bella di ieri.
Sono case
sull'acqua, un tempo fatte di paglia e canne palustri, rifugi e
strumenti di una pesca stanziale che non conosce tempeste. Alcuni
sono costruiti in legno, altri in lamiera ondulata, altri ancora
hanno il vezzo di una tendina alla finestra. Ce n'è uno che sorge
dallo scafo di una barca, improbabile stadio evolutivo di un cassero
fuori misura. Più avanti del fasciame non resta che il perimetro
roso dall'onda, archeologia di un diritto edilizio, occupazione di
suolo terracqueo del tempo che fu.
Sono belli i casoni di
valle, stanno all'acqua come la casa sull'albero sta al vento:
galleggiano senza contatto, ondeggiano senza pericolo, permettono
viaggi dello sguardo senza chiedere un addio.
Superata la Stazione
Foce, giro a destra e subito la pedalata prende lo slancio del volo.
Corro su una striscia sottile di terra circondata dall'acqua su
entrambi i lati: panorama a perdifiato che mi sfila a destra e a
sinistra, che solleva voli bianchi, stormi di anatre, gabbiani,
garzette. Un airone batte l'aria con le ali, proprio a un passo da
me, si alza in alto. Lascia nello spazio vuoto dietro di sé il
mistero del volo.
All'orizzonte si
intravede piccola una casa rosa. È un casone in muratura sulla sua
isola, collegata al sentiero da un ponte di legno. Faccio un giro
tutto attorno in cerca di segni di passaggio, di una finestra mal
chiusa. Non c'è nessuno, da tempo, probabilmente. Riattraverso il
ponte sotto lo sguardo dei gabbiani, guardiani dell'isola.
La ciclabile prosegue
ancora in mezzo all'acqua, sospesa tra il cielo e il suo riflesso,
poi si interrompe e l'ultimo tratto coincide con la strada
provinciale.
Arrivo fino a S. Alberto,
di fronte all'Oasi di Boscoforte, dove incontro ancora i fenicotteri,
alcuni rosa, altri grigiastri: i piccoli.
Qui inizia il “lungo
Reno”, che alcuni mi avevano sconsigliato di percorrere. Non tardo
a capire perché.
La strada, sterrata,
segue per più di trenta chilometri il corso del fiume, prima
sull'argine, poi tra l'argine e i campi. Non c'è anima viva, il
sentiero è sempre dritto e sposta l'orizzonte senza l'appiglio di
una curva, una salita, un albero. Misuro col pedale questa
solitudine, che trascorre tanto più lenta o più veloce, quanto più
faccio forza sui pedali. È una di quelle strade che sembrano non
finire mai. A volte capita di incontrarle, in bicicletta: sono strade
che allenano la fiducia.
Arrivo ad Argenta poco
dopo l'ora di pranzo, ho ancora tutto un pomeriggio di sole.
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