sabato 16 aprile 2022

Sentiero della Bonifica. Un paio di giorni e un paio di storie

 di Giulia Cocchella



Servono un paio di giorni, buon tempo e scorta d'acqua.
Il resto lo trovate lungo la strada, ad attendervi come sempre.
Il Sentiero della Bonifica collega Chiusi ad Arezzo con un percorso ciclopedonale che segue il corso del Canale Maestro della Chiana. Sono poco più di sessanta chilometri e una volta arrivati ad Arezzo si può tornare indietro, l'indomani, passando da Castiglion Fiorentino, Cortona e Castiglione del Lago, come abbiamo fatto noi. Oppure improvvisando altre varianti, perché da queste parti i panorami non deludono mai.
Prendiamo il Sentiero poco sotto l'abitato di Chiusi, nel punto in cui si può vedere la torretta difensiva "Beccati Questo" (non scherzo), costruita a breve distanza dall'altra, "Beccati Quello", edifici che non lasciano dubbi sulle perenni ostilità di confine tra Toscana e Umbria.

Un capriolo attraversa il sentiero e si perde nei campi: iniziamo con questo saluto.
La strada d'argine è sterrata ma scorrevolissima, fiancheggiata da alberi e canne. Le ruote girano in mezzo al giallo del tarassaco e al bianco di alcuni fiori a forma di stella.



Dopo pochi chilometri raggiungiamo il Lago di Chiusi, dove la leggenda vuole che Santa Mustiola, patrona della città, abbia attraversato le acque improvvisando un'imbarcazione di fortuna con il suo mantello. 
Un pescatore guarda assorto la superficie lacustre, in attesa.




Tra il Lago di Chiusi e il successivo Lago di Montepulciano ci aspettiamo di trovare l'ingresso alla Riserva Naturale, ma una volta arrivati al Centro Visite scopriamo che avremmo dovuto seguire i cartelli "Tour del Chiaro", effettivamente incontrati lungo la strada ("chiari" vengono chiamati i laghi di Montepulciano e di Chiusi, scopriremo poi). Quindi torniamo indietro e facciamo il giro attorno al lago di Montepulciano. Incontriamo un unico casotto di osservazione, ma tutto tace. Del resto abbiamo già visto, e incontreremo ancora lungo il percorso, aironi bianchi e cinerini, garzette e diversi rapaci, probabilmente albanelle. Il picchio, che dovrebbe essere presente in molte varietà, non si fa vedere né sentire.




I pedali girano e con loro i pensieri. Passa il vento, passa altro vento. Le canne si piegano, schermano a tratti il sole, mi portano il ricordo fugace di un viaggio passato. Poi torno al presente. 




Se c'è un albero che rappresenta queste terre, è il cipresso. Buffo sempreverde, sembra uscito dalla punta sottile di un grande pennello intinto nel colore e poi subito trascinato verso l'alto. Diversamente dagli alberi con chioma a ombrello, le sue radici affondano a fuso nella terra. 
Non fossimo abituati al suo strano portamento, ci sembrerebbe più esotico di quanto ci appaia.
Qui ne incontriamo molti: distribuiti apparentemente a caso tra le colline, vicino alle case e soprattutto in filari ordinati, a rimarcare i lunghi viali di accesso a ville e cascine.




Diciamo poche parole, qualcuna se la porta via il vento.
Nel canale a un tratto spuntano alberi che sembrano perfettamente a loro agio con le radici nell'acqua. Penso al mio Mathias trasformato in albero e al giardino terracqueo di Lanhelin. Penso che ritroverò me stessa soltanto se riprenderò a scrivere storie. "Pedala! Insegui la tua storia ovunque vada" mi canta nelle orecchie Frankie hi-nrg. 



All'orizzonte si staglia quel che resta del Callone di Valiano, opera che regolava il livello delle acque, assicurando la navigabilità del canale.



La senape selvatica colora di giallo acceso alcuni prati e colline in lontananza, così sulla tavolozza abbiamo giallo, bruno terra, verde brillante, finchè sulla sinistra non compaiono sterminate coltivazioni di peri (o forse pruni) che aggiungono il loro tocco di bianco.







Quasi arrivati ad Arezzo, accanto al muro di una casa, un'improbabile raccolta di sedie e poltroncine offre ristoro.






Mentre il sole si abbassa all'orizzonte, incontriamo le statue di due persone di cui voglio raccontare la storia. 
La prima è La Sputaci, al secolo Angiolina Cipollini: signora di piccola corporatura, il sorriso bonario di chi non ha più denti, è vestita con una certa cura, a giudicare dagli abiti che lo scultore Lucio Minigrilli ha scelto per lei (la gonna era coloratissima, anche se qui non si può vedere). Classe 1888, chiedeva l'elemosina in Corso Italia o in Via Garibaldi, ed era presa di mira dagli scherzi dei ragazzi. Reagiva apostrofandoli con fantasia e anche con qualche colpo di bastone, all'occorrenza. 
La immagino proprio così (e le foto che la ritraggono confermeranno poi la fedeltà del bronzo): un concentrato di fierezza; nelle piccole ossa brevilinee una storia che forse nessuno conosce davvero.


Accanto a lei, l'Uomo d'Oro è l'immagine dell'attesa. I piedi paralleli, la mano destra appoggiata sul manubrio della bicicletta, anch'essa d'oro e immobile, guarda dritto davanti a sé senza posare lo sguardo su nulla che gli sia caro. 
Nell'Arezzo degli anni '60, nel centro storico si aggirava davvero un uomo in abiti d'oro, che aspettava - o almeno così qualcuno incominciò a dire - un figlio disperso in Russia. Un uomo tutto d'oro - dorato il bavero della giacca, dorato il sellino della bicicletta - è la statua di sé stesso ancor prima che intervenga uno scultore. Un uomo d'oro è un uomo buono per definizione, perché così si dice di una persona fatta di materia rara, preziosa. 
Si metteva in un angolo di Piazza della Stazione, alle otto del mattino, avendo forse preso quell'attendere con la serietà di un impegno di lavoro. Stava immobile e silenzioso, senza mai concedersi l'indulgenza di un contatto, di una parola. Durante il giorno si spostava in altri punti della città, sempre gli stessi. Chissà perché, chissà per chi. La gente lo chiamava l'Uomo d'Oro, o anche l'Omino d'Oro, nome da fiaba, cosa che non mostrava di gradire né disapprovare, intento com'era ad attendere con ogni fibra del suo corpo.


Il nostro giro si chiude a Madonna di Mezzastrada, Comune di Arezzo, con un piatto di pici all'agliona di cui non mancherò di parlarvi nel prossimo post.

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