venerdì 9 luglio 2021

Oderzo-Pordenone con bucato steso al sole

 di Giulia Cocchella

Quando i panni stesi la sera prima non asciugano nella notte, l'unica soluzione è stendere sulla bicicletta, in modo che ci pensi il vento. Dalla piazza principale di Oderzo, assicurato il bucato alle borse con le mollette, seguiamo il fiume Monticano. 



La tappa di oggi sarà abbastanza breve, poco più di una cinquantina di chilometri, ma ci riserverà panorami vari e percorsi dal fondo ora asfaltato, ora sterrato.


Le viti sono sempre protagoniste dal bordo strada fino all'orizzonte, disponendo foglie e grappoli al sole secondo la traiettoria antica della crescita: dal basso verso l'alto. Questo è il motivo per cui le linee verticali ci trasmettono vitalità e senso di dinamismo, mentre al contrario quelle orizzontali ci parlano di quiete e stabilità.


Un ponticello ci porta da un argine all'altro, mentre sotto di noi la corrente pettina lunghe alghe verdi, come capelli di strega. Forse per effetto della visita di ieri alla Casa delle Fate, forse perché vedo creature delle fiabe ovunque, immagino senza difficoltà il volto e il corpo verdastro della creatura fluente a cui devono appartenere. Spirito delle acque, dai denti aguzzi come pietre spaccate, abita il limo del fondo, senza divertimento né noia.



Si diceva, il bucato: sembra che l'etimo del termine sia da mettere in relazione a una parola francese, perciò niente a che vedere con i buchi e gli strappi. Ecco, tuttavia, se stendete in bicicletta e non calcolate bene la lunghezza della corda da stendere, per così dire, è facile che il bucato si buchi, rimanendo impigliato nel cambio. Per fortuna ce la caviamo soltanto con un fondello da buttare!


Caprette socievoli ci fermano per qualche pettegolezzo da argine, poi proseguiamo nell'area golenale del fiume Livenza, su piacevole sterrato,




fino a raggiungere il bel borgo di Portobuffolè, contornato da un fossato senza coccodrilli.



Oltrepassata Sacile, ci lasciamo alle spalle anche il Livenza e proseguiamo quasi in linea retta verso Pordenone.
Lungo la strada compare a un tratto Villa Correr Dolfin, costruita alla fine del '600 per i Correr, una delle famiglie patrizie veneziane tra le più antiche. Non è visitabile, ma il cancello aperto invita ad avvicinarsi. Pedalo, disegnando con le ruote un cerchio ampio attorno alle sue pareti rovinate dal sole di tutti questi anni. È un cubo chiuso. Ogni volta che mi capita di imbattermi in un edificio come questo, che sia una chiesa o una casa, mi sembra di provare un piccolissimo assaggio di quella che deve essere la meraviglia dello scopritore. Il primo archeologo, storico dell'arte, storico che- 
Meglio ancora: il primo uomo comune che trovò il coccio, che disseppellì la statua nel suo orto; il bambino che recuperò il pallone nell'antico giardino di- 
Per quel poco che ho potuto sperimentare di archeologia, moltissimi anni fa, mi è rimasto intatto quel gusto speciale del contatto con il tempo passato. Non ha eguali, è come un gusto mai sentito prima sulla lingua. Non è fatto di persone, ma qualche volta è fatto di ossa, e di sassi, e di soglie che se ne stanno in letargo, sottoterra, per secoli.


Il Parco dei Laghetti di Rorai offre una palette di verdi diversi, più e meno diluiti dall'acqua vicino alle rive.



Cerchiamo l'accesso al Lago della Burida, perdendoci in mezzo ai campi assolati, e quando finalmente lo troviamo, una poco amichevole signora di qualche società sportiva ci allontana da quello che evidentemente è territorio riservato ai canoisti. Pazienza. Pordenone ci consola subito con la sua accoglienza all'ora dell'aperitivo.
 


Ci sediamo anche noi, in un bar vicino al bel palazzo del Municipio. I calici di Spritz illuminano di arancione i tavolini come tante piccole lanterne. Qualche sorso e, complice la stanchezza, ho già il sorriso ebete e i pensieri di gomma.















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