giovedì 7 luglio 2022

San Gimignano - Siena. Il pellegrino, il diavolo e l'attesa

 di Giulia Cocchella



Quando si viaggia in bicicletta, forse come conseguenza delle strade secondarie che si percorrono, capita di sfiorare l'attesa: a volte sono le rondini, che restano immobili sui fili della luce (anche se il tremito delle ali tradisce il volo che verrà), a volte sono le persone, con la complicità di una panchina o di una vecchia sedia di quelle che si lasciano all'aperto, a disposizione di tutti. 
Sulla via di oggi, in un punto imprecisato che non so più collocare, passiamo accanto a una di queste tasche del tempo, una pozza d'ombra davanti all'uscio di una casa rurale: c'è una donna, più antica del muro di pietra alle sue spalle, in attesa. Il nostro è un incontro di un battito di ciglia. Le mani, raccolte in grembo, sembrano fatte di nodi di legno, come radici di alberi centenari. Ci regala un sorriso largo, rosa, di pochissimi denti. Sorridono anche i suoi occhi, si animano come se vedessero due volti noti, come se la donna aspettasse proprio noi.
Ci salutiamo con la mano, a lungo. La sua sembra che accarezzi l'aria.



La strada, a parte qualche eccezione, prosegue piuttosto solitaria. 
Le salite sono alleviate da filari interminabili di viti, che guidano lo sguardo all'orizzonte.


Abbiamo intenzione di raggiungere Siena, dove ci attende un amico, ma ancora non sappiamo di preciso se ci arriveremo (ci arriveremo! Ecco il tracciato della tappa di oggi). 
In bicicletta è così: si fanno ipotesi sulla destinazione, ma è bello e necessario lasciare spazio alle variabili. 


Un cancello a doppio battente difende da solo una proprietà privata, scoperta da tutti gli altri lati.


A Poggibonsi prendiamo la pista ciclabile realizzata sul tracciato della vecchia ferrovia. Si trattava di un unico binario che collegava Colle di Val d'Elsa a Poggibonsi, per servire una zona altrimenti esclusa dalla Ferrovia Centrale Toscana.


Inaugurata nel 1885, in disuso dal 1987, è stata definitivamente disarmata nel 2009 per essere convertita in una greenway molto suggestiva, dal fondo compatto.


Oltrepassato Colle di Val d'Elsa, sono i campi di grano a caratterizzare il panorama. Riflettono la luce così intensamente che gli occhi si ubriacano d'oro anche dietro gli occhiali da sole.



Tutto fila dritto, a ritmo di pedale, finché ad Abbadia Isola, contrariamente a ogni ragionevole attesa, lo incontriamo di nuovo.
Siamo seduti su un muretto a lato strada, di fronte a una locanda che sembra vecchia di un paio di secoli. Ci siamo riparati all'ombra di un albero: siamo accaldati, ma lucidi. Stiamo pure recuperando qualche energia con una piccola merenda pre pranzo. Insomma, tutto porterebbe a escludere un colpo di caldo o di stanchezza. 
A pochi passi da noi, spuntato - si direbbe - dal nulla, passa il pellegrino misterioso, trascinando il suo immancabile carretto.
Ci rivolge anche un cenno di saluto, ruotando il busto all'indietro, quindi si mette sulla strada e, di fatto, ci precede.
Siamo sbigottiti, a me scappa da ridere. 
Sulle nostre teste, due fili della luce carichi di rondini. Sono le uniche testimoni di questa ennesima, inspiegabile apparizione.
Ha preso un passaggio in macchina? Un autobus?
Eppure non riusciamo proprio a immaginarlo su un mezzo a motore: ha un'ostinazione, un'integrità nella struttura dei suoi stessi muscoli, che non possiamo pensarlo altrimenti che irriducibile, onesto. Con una media di chilometri al giorno che ha dell'incredibile.
Lo superiamo, con deferenza.


Monteriggioni ci regala diverse gioie: una cinta muraria e un borgo davvero suggestivi, una piadina che l'appetito rende la migliore del mondo e una penna, sì una penna, a forma di cavaliere templare, che non posso fare a meno di acquistare all'ufficio del turismo. Dove guadagniamo anche un nuovo timbrino che certifica il nostro passaggio.



Quelle che a prima vista potrebbero essere scambiate per eleganti cucce per cani o fornaci per mattoni a uso familiare, sono in realtà botti in cemento per il vino. Non ne avevo mai viste, fatte così. Inutile dirvi che propendevo per le prime ipotesi. 



Ne incontriamo diverse, quasi tutte con una forma caratteristica con volta a botte (e qui ho un guizzo) e graziosa targhetta del produttore, con omino che beve. Apprendo da mio papà, al ritorno dal viaggio, che le botti per il vino erano fatte così, oltre che in legno, prima che venisse introdotta la vetroresina.


In una quindicina di chilometri siamo a Siena, attirati dalla gravità in Piazza del Campo, mentre un cielo sempre più grigio brontola tempesta.
La gente in piazza guarda la Torre del Mangia e le nuvole.


Ci sistemiamo presso l'hotel All'ombra della Torre, un palazzo storico convertito in albergo. Raramente mi soffermo sulle strutture ricettive, a meno che non ne rimanga davvero contenta. È questo il caso: baldacchino, soffitti lignei, pareti affrescate, uniti a disponibilità e gentilezza. 


Dopo una doccia, torniamo nella vicina Piazza del Campo, davanti alla Fonte Gaia. Paolo ci accoglie con grande affetto. E passeggiando, incomincia a raccontare.
Succede così che la città - il suo scheletro antico di pietra, le sue fasce muscolari tese, il suo sotterraneo reticolo di vasi - succede che la città diventa viva, più viva di un uomo vivo.


Scopriamo l'esistenza dei "bottini", acquedotti che alimentano le fonti passando sottoterra - sottopelle - dal Medioevo. Chiamati così, probabilmente, perché voltati a botte (di nuovo!).
Impariamo a riconoscere i "braccialetti" delle diverse Contrade.


Su un gradino della scalinata di Piazza San Giovanni, cerchiamo la croce che ricorda nel marmo il punto esatto in cui Santa Caterina cadde, inciampando forse nel suo stesso abito bianco, forse nel mantello scuro, perché il diavolo la spintonò.


In piazza del Duomo, mi trovo a fotografare lo stesso spigolo che immortalai vent'anni fa (l'ultima volta che sono stata qui): è il punto in cui il Duomo avrebbe dovuto svilupparsi più grande, il tentativo mai finito, il disegno lasciato a metà del "Duomo Nuovo".
E come spesso accade nelle architetture umane tutte - invece di cancellare, poiché non si può usare la gomma - il disegno  mancato, la linea finita fuori margine si recuperano con la creatività: a un certo punto si riparte da lì per disegnare qualcos'altro. Un palazzo, in questo caso.


Paolo ci racconta la sua città come se sfogliasse un album di famiglia.
Mi chiedo che cosa significhi appartenere così tanto a un luogo: io mi sono sentita a casa in molti posti diversi e, in definitiva, in nessuno in particolare. La mia casa è un posto nel cuore, assomiglia più a un organo interno che a un punto sulla cartina.
Mano a mano che il racconto si addentra con noi tra le contrade, capisco meglio. Confusamente, ma capisco: che qui vigono regole diverse, che queste regole vanno prese sul serio e che davvero Siena è una città viva, fatta di ossa, di pelle e di organi interni. Da qualche parte sentiamo potente il suo battito.
Proviene da un cortile, in cui due ragazzi si esercitano a suonare il tamburo per il Palio.



La serata prosegue così piacevole che mi dimentico quasi della strada di questa mattina. Mi sembra di essere sempre stata qui.
Poi incomincia a piovere.
Quando rientriamo, piove così forte che nel buio della stanza il rumore rimbalza sulle pareti, contro le travi di legno sul soffitto. Entra nei miei sogni e diventa tamburo. Poi battito cardiaco, poi battere di zoccoli. Corrono così forte, i cavalli, che tutti i fantini vengono disarcionati. C'è grande imbarazzo. Soprattutto da parte del fantino pagato per disarcionarne un altro, che a questo punto non sa più che fare. E adesso? Se lo chiedono tutti. I cavalli corrono così forte che gli zoccoli fanno rumore di grandine sulla piazza. Corrono in tondo e la giostra è velocissima, nessuno riesce più a salire. Chiamiamo il diavolo! dice un ragazzo facendo schioccare le dita. Il diavolo fa inciampare il primo, che fa ruzzolare il secondo, che intralcia il terzo e così via...










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